Il 7 marzo scorso ricorreva l’anniversario della morte di Stanley Kubrick. Venti anni esatti senza il suo genio visionario, folle, onirico, spesso quasi lisergico. Sempre corrosivo e disturbante. Certamente, distopico. Per primo, almeno nel mondo della filmografia, il grande regista anglo-statunitense ha colto, percepito e raccontato la deriva orwelliana del mondo moderno e i meccanismi che la regolano. Padroni e schiavi, pupari e burattini. Soprattutto, gli schemi che la sorreggono e la rendono non solo possibile e accettata socialmente, ma terribilmente efficace. Il canale cinematografico in chiaro di Mediaset, Iris, ha dedicato per tutta la scorsa settimana la sua prima serata a un film di Stanley Kubrick e giovedì è stato il turno del suo lungometraggio certamente più famoso, Arancia meccanica, tratto dall’altrettanto folle capolavoro di Anthony Burgess. L’ho rivisto – con grande soddisfazione, soprattutto pensando che l’alternativa fosse l’ennesima puntata strappalacrime filo-migranti di PiazzaPulita, il miglior servizio elettorale in prime time che la Lega possa chiedere – e ho colto delle inquietanti analogie con il presente. Quasi profetiche.



Lo schema del film, la sua trama in soldoni è nota a tutti: Alex è il capo di una temibile banda di teppisti, i Drughi, i quali stanchi del suo dispotismo, lo incastrano dopo una rapina e lo fanno processare e arrestare. Giunto in carcere per scontare 14 anni per omicidio, Alex scorge la via d’uscita “istituzionale” nella “cura Ludovico”, ovvero una rieducazione forzata dell’individuo che ne spegne le pulsioni criminali a colpi di film, induzione al rifiuto degli istanti e farmaci. Il motivo? Lo spiega il ministro dell’Interno, il quale durante una visita al carcere accorda ad Alex la possibilità di evitare l’espiazione della pena, in caso decida di sottoporsi alla cura alternativa e sperimentale: presto le carceri serviranno per i reati politici, i delinquenti comuni vanno rieducati e messi in condizione di non nuocere con nuove metodologie. Anche perché il governo non ha fondi da stanziare per la costruzione di nuove carceri.

Alex esce e la sua parabola di redenzione andrà fuori controllo, patirà la vendetta di ex amici e di ex vittime, fino allo sbocco naturale per Kubrick di quello che è un percorso di redenzione, ma, soprattutto, nuovo controllo sociale: lavorare per il potere, lo stesso che ha sfidato da sempre con la sua vita dissoluta da delinquente. Un patto con il diavolo per un bene superiore: la pace sociale. Percepita, ovviamente. Solo percepita. Bene, scusate la prolusione. ma magari al mondo c’è qualcuno che non ha visto il film o letto il libro, quindi necessitava di un breve compendio. Detto questo, avete notizie dei “gilet gialli”? Il primo sabato del mese di marzo erano in circa 37mila in piazza in tutta la Francia, qualche scontro e qualche molotov a fine corteo a Parigi e brevi sprazzi di news nei telegiornali. E quest’ultimo sabato, invece, l’altro ieri? Nulla. Nel senso che la realtà percepita offertaci dai media non ha trovato nemmeno uno scampolo di spazio per parlarci dello loro diciassettesimo sabato di protesta: zero copertura. E, in effetti, zero incidenti. Ma anche, cari lettori, zero partecipazione, se compariamo i numeri con quelli soltanto di inizio 2019. Neve al sole.

E la loro fantomatica lista per le europee? Ne stanno parlando, certo. In silenzio e litigando, però. E sapete l’ultimo sondaggio a quanto li accredita, dopo il 12-13% di dicembre che tanto aveva allarmato Macron e sodali, almeno a detta dei commentatori autorevoli? Sono fra il 4% e il 5%, quest’ultima percentuale molto striminzita e ottimistica. Roba per feticisti, quasi, per cultori del genere. Più che dimezzati. In due mesi. E nonostante ogni sabato siano in piazza e la Francia non sia diventata di colpo il Bengodi sociale delle classi meno abbienti. Di più, nonostante la recessione sia ormai ufficialmente sbarcata nell’eurozona, come in ultima istanza testimoniato e certificato dalla mossa “emergenziale” della Bce di giovedì scorso. Chi ci ha guadagnato, Macron forse, il quale ha potuto fare in questo modo un bel 10 miliardi di extra-deficit, comprando consenso a costo zero?

E tornando in Italia, notizie dei pastori sardi? Prima del voto regionale in Sardegna, sembravamo appunto di fronte alla riedizione in salsa nuraghese dei “gilet gialli”, sembrava – per come era dipinta – la versione lattiero-casearia del ‘68 o del ‘77. Tanto che il valente ministro dell’Interno si era trasferito in pianta stabile nella regione insulare, perché la questione andava “risolta in 48 ore”. È andata così? No, però la Lega ha fatto il pieno di voti e i 5 Stelle si sono schiantati peggio che in Abruzzo. Quello era il risultato da raggiungere, mica il prezzo del latte. Il quale infatti è sì salito, ma a 74 centesimi al litro e con un conguaglio a novembre di quest’anno. Tutto bene, nonostante i pastori nel clima pre-elettorale avessero promesso barricate a oltranza, se i produttori non fossero saliti almeno a 1 euro al litro.

In compenso, tanto per dissimulare un po’ l’aria e fare in modo che la pantomima non risulti troppo sfacciata e palese, ecco che sabato viene assaltata e bruciata in solitaria un’autocisterna da due uomini armati, proprio il giorno dopo l’accordo sui 74 centesimi al litro. Così, tanto per non dare nell’occhio con un eccesso di oblio sulla vicenda. Non esisteva alcuna emergenza, tantomeno di ordine pubblico. Esisteva una necessità elettorale che ha fatto comodo a tutti, in testa ai pastori sardi. Lo schema è sempre lo stesso: il ribelle o il cattivo che mettono lo Stato alle strette. Ma che, nella maggior parte dei casi, o fanno il suo gioco o lavorano direttamente per suo conto. Sugli Champs Elysèes come sulle strade provinciali del nuorese. Lo schema è lo stesso, quello denunciato da Stanley Kubrick.

E che dire del Brexit, il quale domani regalerà al mondo il 1323mo voto “definitivo” sul da farsi, quando mancheranno 17 giorni alla data di uscita ufficiale della Gran Bretagna dall’Ue e nulla – proprio nulla, gestione statutaria e pratica del clearing operato nella City sui derivati euro/dollari per qualche centinaio di miliardi al giorno in primis – è pronto? Oltretutto, attenzione: perché se per caso il nuovo piano che Theresa May sottoporrà a Westminster – di fatto inesistente, visto l’esito zero dei colloqui a Bruxelles – sarà bocciato, avremo due nuovi voti “definitivi” nell’arco di tre giorni. Ovvero, decisione sul rinvio della data di uscita e su un eventuale nuovo referendum, ipotesi quest’ultima cui il Labour ha già annunciato il suo appoggio. Non è una colossale arma di distrazione di massa, oltre che la peggior dimostrazione di cialtroneria politica del Regno Unito da almeno il Secondo dopoguerra? Vi pare un caso che quella deadline, di fatto ignorata per mesi come un compito in classe di cui si rimanda sempre la preparazione, sia stata piazzata proprio a ridosso del voto delle europee, ovvero con una Commissione con i trolley già in mano e poco o nulla da perdere, soprattutto in sede di vertice del 21-22 marzo prossimi?

Vogliamo poi parlare della cronaca più atroce, più di pancia e meno nobile? Io capisco che fosse impegnato nei festeggiamenti per il suo 46mo compleanno, ma, come mai, un twittarolo da indignazione facile come il ministro dell’Interno non ha trovato nemmeno un secondo per esprimere il suo disgusto per l’ubriaco che al volante a Marostica ha investito una famiglia che stava mangiando il gelato, portando come prima e immediata conseguenza l’amputazione della gamba a un bimbo di 14 mesi? Forse perché è veneto, bianco, venetista (quindi, più o meno leghista come simpatia e orientamento) e omofobo, almeno stando ai post su Facebook? Fosse stato senegalese o anche solo di Pozzuoli, il ministro avrebbe trovato un secondo per mostrare solidarietà al bimbo che vedrà la sua vita rovinata per sempre e alla sua famiglia? E non sono io a voler scendere su questo piano infimo di confronto e dibattito, lo ha fatto non più tardi della scorsa settimana il titolare del Viminale in persona, lanciando maledizioni social contro il marocchino che, sempre guidando ubriaco, ha ucciso madre e padre e ferito gravemente i due figli a Porto Recanati. Addirittura, quella tragedia è servita da pretesto come ennesimo blitz su un tema quantomeno degno di maggior riflessione, come l’intervento sulla modica quantità di stupefacenti e la sua regolamentazione in ambito penale.

Signori, fanno carne di porco del buon senso, prima che del buon gusto. E attenzione, perché se le messe in guardia allarmistiche sul nuovo fascismo sono idiozie da frustrati, le leggi speciali nascono proprio dalla perdita di raziocinio collettiva, dovuto a – spesso giustificabile – esasperazione. Stesso schema, però: figli e figliastri. O, come in questo caso, mostri e mostrini. Oltre alle mostrine, quelle che piacciono tanto al ministro e che fanno capolino sulle sue giacche fuori ordinanza.

E vogliamo parlare della Tav? Il processo è identico. Prima si criminalizza un’intera vallata, trascinando sullo stesso livello la protesta violenta dei cassuers nostrani con quella pacifica dei residenti e poi si da vita a una pantomima lessicale da Azzeccagarbugli che nemmeno il peggior amministratore locale nell’epoca del Pentapartito: è questo il rinnovamento? La trasparenza? L’onestà-onestà del governo del cambiamento? I giochini semantici su “bandi” e “inviti”? Roba da gioco delle tre carte nelle stazioni ferroviarie. Roba da “cura Ludovico”, visto che il mondo pare diviso ideologicamente e pavlovianamente fra No Tav e Sì Tav, ma questa colossale forzatura di incoerenza ontologica e politica non pare notarla. Anzi, qualcuno azzarda l’analisi in base alla quale questo sia il segnale di un governo di gente preparata, parla di “capolavoro di Conte” e addirittura prefigura magnifiche sorti e progressive per i prossimi quattro anni in giallo-verde, ora che l’intenzione pare quella di svenderci alla Cina per un pugno di Btp, quando non siamo in grado di gestire 20 chilometri di alta velocità e ci lamentiamo per le delocalizzazioni in Slovenia e Ungheria.

Quest’ultima, tra l’altro, contemporaneamente dipinta come esempio fulgido di sovranismo da seguire, salvo scordarci del piccolo particolare che quel dumping fiscale che sta ammazzando le nostre aziende è garantito – anche e soprattutto – dai generosi sussidi pressoché a fondo perso (visto il rapporto dare/avere) che Budapest ottiene annualmente da quell’Unione europea. La stessa su cui Viktor Orban sputa ogni giorno che Dio manda in terra. Rifletteteci.

(1- continua)