Lo spostamento dell’asse geo-economico dal Mediterraneo all’Atlantico coincide con l’affermazione della Modernità a guida del Nord Europa. Con il venir meno della capacità di monopolizzare i flussi di merci e di capitali dei commerci su lunga distanza, Venezia e Genova persero progressivamente la loro capacità attrattiva. Un processo strettamente connesso al declino della capacità dell’impero mongolo di garantire l’accesso sicuro alle reti commerciali asiatiche. Da un lato, lo sviluppo di nuovi poli commerciali che guardavano al Baltico e all’Atlantico e, dall’altro, la chiusura del commercio con l’Asia significò l’inizio del declino irreversibile della capacità italiana di avere l’egemonia del commercio internazionale. I genovesi seppero guardare altrove, legando i loro interessi all’impero spagnolo e ai mercanti castigliani, connettendo sempre di più i flussi di capitali con quelli dei poli emergenti della finanza dell’Europa del Nord; l’ironia della storia ha voluto che, nel contesto attuale, questa ipotesi sia meno realistica di quella che si è concretizzata fra Trecento e Quattrocento.
Questa piccola digressione di carattere storico nella sua semplice schematizzazione ha forse il privilegio di far riflettere su quanto forte sia il legame geo-economico che connette il Mediterraneo alle reti commerciali asiatiche. Se i cicli economici ci illustrano l’ascesa o il declino delle economie nazionali, la geo-economia ci pone delle costanti destinate a ritornare e che ne rappresentano, in un certo senso, il destino.
La Nuova Via della seta comporta un epocale ritorno alle condizioni che posero il Mediterraneo al centro dell’economia-mondo europea. A fronte di una considerazione del genere, la preoccupazione espressa dal portavoce dell’amministrazione americana sulla possibilità che l’Italia firmi il memorandum con cui essa entra nella colossale rete commerciale ad iniziativa cinese va, per lo meno, relativizzatata. Se il Mediterraneo ritrova una centralità grazie alle reti commerciali che si irradiano dalla Cina, rinunciare a giocare questa partita potrebbe significare perdere un’occasione irripetibile.
Anche se i timori palesati da molti commentatori e da settori della compagine governativa hanno dei fondamenti oggettivi – la strategia cinese in Africa ha evidenti aspetti neocoloniali – si basano su un presupposto non molto lusinghiero per il nostro Paese: dà, cioè, per scontato che esso debba comunque avere una relazione subordinata con i suoi partner internazionali. Parimenti il rischio di incrinare in modo irreversibile le relazioni con gli Usa si basa su una rappresentazione del Paese semplicistica, che rimuove quella che è la sua essenza geopolitica e geo-economica.
Si dimentica che l’Italia è un Paese liminare, che collega continenti e culture diverse, e che per questo motivo può fungere da fattore stabilizzante di tutta l’area mediterranea. Funzione che, se svolta all’interno delle sue tradizionali alleanze atlantiche, risulterebbe gradita anche agli Usa. Ruolo, questo, svolto durante la Guerra fredda e che a maggior ragione può essere ricoperto nei confronti di una potenza il cui progetto imperiale non prevede l’esportazione dei propri modelli politici ed economici e che è parte fondamentale e indispensabile della catena globale del valore.
Le perplessità che accompagnano la possibilità che l’Italia firmi il Memorandum of Understanding vanno ricercate altrove, e cioè che il Paese si limiti a far fruttare la sua rendita territoriale che viene dal fatto che è una piattaforma logistica al centro del Mediterraneo e rinunciando a priori a una politica industriale che è il solo strumento per rilanciare un’autentica politica di sviluppo. Inoltre, se è vero quello che dice Niall Ferguson, che più delle reti contano i gangli da cui si controllano, l’Italia non deve rinunciare al controllo degli hub principali. A tal riguardo, l’esempio del porto di Trieste rappresenta un modello da seguire, in cui la capacità di attirare investimenti stranieri si accompagna a una salda guida e a un’idea precisa di sviluppo.
In realtà, l’attivismo della Cina pone dei problemi che vanno oltre il futuro della Nuova Via della seta e che coincidono con le criticità proprie di questa fase della globalizzazione. Anche per questo motivo il blocco ai flussi dei capitali cinesi, evocato a più riprese, non può essere scisso da un più generale discorso che preveda la regolamentazione di tutti i flussi di capitali, che come durante la crisi del Gold Standard sono, in questa fase, un grande fattore di instabilità.
In definitiva, non possiamo fare una colpa alla Cina se, a differenza di Francia e Germania, che hanno assegnato all’Italia un ruolo periferico nel progetto europeo, vede nel nostro Paese nel Mediterraneo il possibile fulcro della nuova globalizzazione. Inoltre la cinese Banca asiatica d’investimento per le infrastrutture (Aiib) fa quello che facevano il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale durante la Golden Age, facilitando l’espansione – parlando della Cina, dovremmo dire graduale e quindi naturale – del commercio internazionale e finanziando progetti infrastrutturali e industriali, colmando, così, un vuoto lasciato da tempo dalle istituzioni finanziarie occidentali.
Al netto delle legittime preoccupazioni, la connessione con le reti commerciali cinesi mette l’Italia di fronte al proprio passato e al proprio futuro, con cui prima o poi saremo costretti a fare i conti.