La Cina è vicina è il titolo di un film di Marco Bellocchio del 1967, un’acre satira della borghesia emiliana. È anche quello di un interessante diario di viaggio pubblicato dieci anni prima del giornalista Enrico Emanuelli. Sarebbe stato anche uno degli slogan, nel 1969, dell’attuale ministro dell’Economia e delle Finanze Giovanni Tria, allora poco più che sergente della piccola armata “maoista”, guidata da Luca Meldolesi, in quel di Valle Giulia a Roma. Allora la Cina era molto, molto lontana. E sorprendeva. Ricordo un reportage di Giorgio La Pira, per anni sindaco di Firenze, in cui si dichiarava sorpreso dei milioni e milioni di biciclette e dalla cortesia di Mao e della sua corte, nonché l’ammirazione per le cooperative agricole e quelle, allora nascenti, del manifatturiero.
La Cina di oggi è molto differente da quella di quegli anni. Ne resta una parte rurale, ma il suo baricentro è uno sfrenato e agguerrito capitalismo di Stato (o a partecipazione statale) alla ricerca di nuove fonti di approvvigionamento e di nuovi mercati. È questa la Cina che si avvicina all’Italia e che occuperà l’attenzione la settimana con una delegazione guidata dal Presidente della Repubblica Popolare in persona, Xi Jinping, che arriverà nel nostro Paese.
Il Presidente dell’Istituto Affari Internazionali, Amb. Ferdinando Nelli Feroci, ha scritto in modo molto equilibrato che la visita di Stato avviene all’insegna di polemiche, ambiguità e qualche contraddizione e ha sottolineato il rischio che una visita che dovrebbe servire a consolidare un rapporto con il Paese che si appresta a diventare la prima potenza economica del mondo (e che è già comunque uno dei grandi protagonisti sulla scena internazionale) si trasformi in un’ulteriore occasione di incomprensioni e frizioni con i partner tradizionali dell’Italia (Usa e Ue).
La parte più prettamente cerimoniale è la firma di un Memorandum of Understanding (MoU) che dovrebbe definire i termini e le condizioni della partecipazione dell’Italia alla One Belt and One Road Initiative (Obor), la nuova Via della Seta, il progetto strategico con il quale il Governo cinese si propone di realizzare una grande via di comunicazione terrestre e marittima in grado di collegare la Cina all’Asia Centrale e all’Europa. Anche il precedente Governo aveva manifestato interesse e aperture nei confronti dell’Obor. D’altra parte, finora, non è stato avviato nessun serio coordinamento in sede europea sulla partecipazione all’Obor. E nell’assenza di un linea comune europea, ben 13 Paesi membri dell’Ue hanno nel frattempo firmato analoghi MoU con il Governo cinese. Sono dichiarazioni di principio di solito molto vaghe e molto generali. In parallelo, da tempo la Cina dialoga con 16 paesi dell’Europa Centro-Orientale e dei Balcani Occidentali sul tema dell’Obor tramite un forum informale.
Tuttavia, negli ultimi mesi sia gli Usa che l’Ue hanno mutato atteggiamento nei confronti di Pechino, che vedono come un gigante economico che intende diventare un gigante politico ed esercitare egemonia non sull’Asia e sull’area del Pacifico, e su una parte importante dell’Africa, ma anche su settori del Vecchio continente, carpendo principalmente preziose tecnologie all’avanguardia.
La visita . sottolinea ancora l’Amb. Nelli Feroci – è stata preparata con approssimazione e confusione. Il testo del MoU è stato mantenuto confidenziale fino a qualche giorno fa, alimentando le consuete e ricorrenti polemiche fra i due partiti che compongono la maggioranza di governo. Alla vigilia quasi degli incontri, è stata data un’idea della portata delle intese che si dovrebbero concludere in occasione della visita e si sono cercati di rassicurare Usa e Ue che i giganti cinesi del web (e il loro accesso alle reti italiane) non erano parte dei protocolli da firmare durante gli incontri romani.
Il MoU è un documento programmatico più ambizioso di quelli firmati da altri Stati europei: delinea un partenariato strategico di ampio respiro che copre un numero impressionante di settori: commercio, investimenti, finanza, trasporti, logistica, infrastrutture, connettività, sviluppo sostenibile e mobilità delle persone fino alla cooperazione in Paesi terzi. Molto più cauto il documento presentato la settimana scorsa dalla Commissione europea al Parlamento europeo e al Consiglio dei Ministri dell’Ue, in cui si delinea una strategia, che dovrebbe essere eventualmente adottata dal Consiglio europeo e in cui vengono definite le grandi linee di un approccio condiviso che l’Ue e gli Stati membri dovrebbero adottare nei confronti della Cina.
Numerosi protocolli riguardano la cooperazione culturale (scambi di mostre, spettacoli, professori, studenti). Alcuni la cooperazione finanziaria per il finanziamento di infrastrutture (difficile comprendere la priorità visto che l’Italia ha utilizzato appena il 3% dei 20 miliardi di euro messile a disposizione, a questo fine, dall’Ue). Altri il commercio, area in cui dovrebbe essere pregiudiziale la rimozione di barriere non tariffarie che impediscono l’accesso dei prodotti italiani al mercato cinese. Altri, infine, l’industria. Occorre che Governo e Parlamento esaminino i testi con grande cura perché la Cina non ha mai mostrato grande attenzione al principio di reciprocità.
Vale la pena leggere con cura un saggio di due economisti di rango Han-Wei Liu e Si-Wei Lu dal titolo The Future of China’s Trade Pact and Intellectual Property Rights, in corso di stampa nel volume The Future of Asian Trade Deals and IP (a cura di Kung-Chung Liu & Julien Chaisse) che sarà in libreria in maggio. È disponibile da qualche giorno on line per gli abbonati al Social Science Research Service. Sia Han-Wei Liu che Si-Wei appartengono a istituzioni accademiche classificate tra la prime 25 al mondo: il primo all’australiana Monash University (che ha una sede distaccata anche a Prato), il secondo alla National Chengchi University di Taiwan.
Il lavoro, basato in gran misura su documenti della Repubblica Popolare Cinese, è in primo luogo un’interessante rassegna storica di quali siano state le prassi di Pechino in materia di commercio internazionale e proprietà intellettuale negli ultimi trent’anni. Prima di accedere all’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) nel 2001, la Cina concludeva accordi bilaterali all’insegna della vera e propria “pirateria” della proprietà intellettuale: in breve, se si voleva avere accesso al mercato cinese, in pieno sviluppo, occorreva mettere a disposizione di Pechino le tecnologie dei beni che si volevano esportare.
Dopo il 2001, vengono evidenziate due fasi molto distinte. Sino al 2006, da “nuovo socio” del club Omc, Pechino ha tenuto a dare l’impressione di essere un attento osservatore delle regole e ad avere un basso profilo. Successivamente, ha avuto un comportamento sempre più disinvolto, anche a ragione del fatto che, nel mondo commerciale, cominciavano a proliferare accordi bilaterali o multi-bilaterali, che, oggettivamente, indebolivano l’Omc e il suo corpo giuridico.
Da un lato, la Cina varò una normativa che includeva i propri copyright tecnologici tra i beni e i servizi di “rilevanza strategica”, punendo la pubblicazione con pene equivalenti a quelle contro lo spionaggio. Da un altro, venne introdotta la prassi di sequestrare alla frontiera beni con un elevato contenuto tecnologico, con un pretesto o con un altro (di solito di ordine burocratico in merito alla documentazione di accompagnamento), fare scomporre la merce da tecnici cinesi e copiarne, alla bell’e meglio, il contenuto. Ne sono seguite varie dispute davanti gli organi giurisprudenziali dell’Omc e le reviews periodiche della politica commerciale cinese sono state sempre più critiche. Il lavoro contiene riferimenti a una ricca documentazione, sia internazionale che cinese.
L’ Obor viene trattato nella parte finale del lavoro. Anche se è difficile giungere a conclusioni su un’iniziativa ancora agli inizi, Han-Wei Liu e Si-Wei Lu la vedono come un modo per aggirare, con intese bilaterali, sia le regole dell’Omc, sia le convenzioni di Berna e de L’Aia sulla proprietà intellettuale. Quindi, occhio a ciò che si firma.