Tu guarda un po’ le combinazioni. Donald Trump attraversa mezzo mondo per incontrare Kim Jong-un, formalmente per dare impulso al processo di de-nuclearizzazione della penisola coreana. Importante, per carità. Ma, direi, non prioritario. O, quantomeno, non certamente urgentissimo. Sicuramente pare più urgente la questione venezuelana, di cui l’amministrazione statunitense si è fatta pesantemente carico fin dall’inizio, non fosse altro per il riconoscimento ufficiale di Juan Guaidó che ha dato il via all’intero domino diplomatico, fra cancellerie e Onu. Ma si sa, il Venezuela non ha appeal. È questione meramente petrolifera sul breve termine, va bene per qualche servizio televisivo strappalacrime sui cittadini affamati dallo spietato dittatore comunista: roba che però, dopo 20 secondi, ti spinge a fare zapping con il telecomando. E che, soprattutto, ha i crismi del blitz. Ovvero, o si fa un bel golpe vecchio stile e si ribalta il governo in 3 giorni o rischia di diventare una guerra ibrida e di nervi, una contrapposizione di interessi ed equilibri che ha lo stesso appeal per il pubblico dell’ultima idiozia partorita da Adriano Celentano. E per quanto gli Usa ci abbiano sperato, Caracas non è caduta sotto la spinta dell’insurrezione popolare e, soprattutto, dell’insubordinazione di massa dei militari. Quindi, occorreva un diversivo di quelli totalmente inutili all’atto pratico ma degno di un film di Netflix come attrattiva e cornice di svolgimento. Et voilà, ecco la pagliacciata di Hanoi bella e servita.



Perché signori, che fosse una pagliacciata lo dice chiaramente l’epilogo a cui si è giunti. Ovvero, annullamento del pranzo ufficiale e chiusura anticipata, senza uno straccio di accordo. Un fallimento. In partenza, perché se sei il Presidente Usa che ha minacciato di cancellare Pyongyang dalla cartina geografica e decidi che invece occorre trattare per arrivare allo stop al nucleare nell’area, il minimo che devi concedere è un ammorbidimento delle sanzioni. Quantomeno, come gesto di buona volontà. Tanto più che non serve essere un diplomatico di lungo corso, basta aver visto due puntate di House of cards, per sapere che certi meeting vengono preparati prima dai cosiddetti sherpa, proprio per evitare rotture e figuracce internazionali simili. Invece, apparentemente, dilettantismo allo stato puro. O sabotaggio da cortina fumogena, ipotesi che mi vede decisamente più allineato, vista l’escalation di questa pratica da quando John Bolton ha preso le redini reali e fattive della politica estera Usa.



Detto fatto, nessuna concessione sul fronte delle sanzioni. E su quel punto il meeting è saltato del tutto. Perché serviva farlo saltare, visto che non c’era proprio nulla di interessante, reale e importante da discutere. Serviva solo far finire in coda alla notizia del grande incontro internazionale, qualsiasi fosse stato l’esito (anzi, un fallimento fa parlare di più e preoccupa anche i mercati, garantendo un effetto a strascico anche sulle news economiche), quella più sgradevole della testimonianza davanti al Congresso del tuo ex avvocato, il quale non solo porta acqua al mulino dei sospetti di collusione con la Russia, ma ti apostrofa in mondovisione come imbroglione e razzista. Sgradevole, più la seconda accusa della prima, con i tempi che corrono (e il contesto in cui si è consumata la sceneggiata).



Signori, è tutta una questione di comunicazione e dissimulazione. Persino gli incontri ufficiali dei capi di Stato, persino materie come la proliferazione nucleare sono ormai ridotte a palcoscenico per recite a soggetto, dissimulazioni di massa per distrarre l’audience assetata di scoop e titoloni roboanti. Altrimenti, metti caso che l’informazione economica fosse davvero seria, si rischierebbe di dover discutere di questo, ovvero del fatto che non solo il mondo ha sul groppone qualcosa come circa 250 triliardi di debito combinato fra pubblico e privato, ma, molto peggio, che la lezione del 2008 è stata talmente capita dai mercati e dalla politica – vigilantes stile Fmi in testa – che nell’ultimo decennio quello stesso debito è aumentato di 70 triliardi di dollari.

E voi, al netto di una situazione simile, credete alla Fed che normalizza il suo bilancio, alla Bce che smette con il Qe, alla Bank of Japan che riduce gli acquisti e alla Pboc che limita le iniezioni di liquidità alle mere esigenze interne, chiudendo fino a data da destinarsi il bancomat globale dell’impulso creditizio? Credete anche a Babbo Natale, per caso? Vi ho già dimostrato nel mio articolo di giovedì che le principali Banche centrali, grazie a una recessione “fatta in casa” e creata ad arte da loro stesse e dalla politica – vedi l’inutile guerra commerciale orchestrata da Usa e Cina – sono già tornate in modalità di stamperia. Manca soltanto la Bce, ma immagino che al meeting del 6-7 marzo, anche in vista del 1962mo showdown sul Brexit, qualcosa si dovrà gettare in pasto al mercato, oltre alle aste di rifinanziamento a lungo termine.

In compenso, l’aver fatto saltare il meeting di Hanoi ha ottenuto un risultato importante. Il mercato finanziario sudcoreano si è schiantato, ha ovviamente reagito male al fallimento totale della politica di disgelo. E ieri mattina, con timing perfetto, a quella rinnovata tensione si è andato a unire il dato relativo a una dinamica macro da sempre utilizzata da Bank of America come proxy diretto del rischio di recessione globale: l’export della Sud Corea si è letteralmente spiaccicato al suolo a febbraio, con la voce “spedizioni” in contrazione dell’11,1% su base annua e l’indice relativo a chip e semiconduttori, di fatto l’Eldorado tech, addirittura del 24,8%. “Monitoriamo con attenzione la situazione finanziaria”, si è affrettato a dichiarare il ministro delle Finanze sudcoreano. Anche perché oltre a essere il proxy e il link maggiore relativamente allo stato di salute della catena di fornitura globale, l’economia sudcoreana è strettamente connessa a quella cinese, visto che l’export di Seul verso Pechino vale il 10% del Pil sudcoreano da solo.

E attenzione, perché la vera novità al riguardo è arrivata sempre giovedì mattina dalla Cina, con fuso orario pressoché sincronizzato con l’annuncio del fallimento del vertice vietnamita fra Usa e Corea del Nord. Una notizia che se esistesse un’informazione economica e finanziaria degna di questo nome avrebbe aperto i telegiornali e i quotidiani. Ahimè, non è ovviamente stato così. Nonostante il diluvio di liquidità iniettato nel sistema a inizio anno dalla Pboc, qualcosa come 4,64 triliardi di yuan di nuovo debito sotto forma di mutui erogati e venduto al mondo sotto l’esotica formula del Total Social Financing, il dato Pmi del settore manifatturiero cinese a febbraio è sceso ulteriormente sotto la quota spartiacque di 50, arrivando a 49.2 contro una media delle attese di 49.5. Il nuovo export è sceso a 45.2 da 46.9 su base mensile, mentre il Pmi non manifatturirero – il quale riflette l’andamento di settori fondamentali come le costruzioni e i servizi – è a sua volta calato a 54.3 contro i 54.7 di gennaio. Ma la scusa è pronta: la produzione in Cina a febbraio ha rallentato, visto che il periodo di vacanze a livello nazionale per il Capodanno lunare e una quantomai opportuna campagna di blocco a rotazione in alcune province per “ridurre l’inquinamento” hanno fatto sentire il loro effetto.

Balle. La realtà è che a febbraio l’attività industriale cinese è scesa al minimo da tre anni e i nuovi ordinativi hanno toccato il peggior livello da dieci anni. Il Capodanno lunare e le vacanze a esso collegate ci sono ogni anno, d’altronde. E letture del genere non sono certo giustificabili dalla pagliacciata ecologista delle chiusure a rotazione (cosa vi dicevo ieri nel mio articolo, al riguardo?) di qualche fabbrica, tanto più vista la mole di stimolo monetario iniettata il mese prima nel sistema (pari al 5% del Pil). Signori, il rallentamento cinese è molto peggio di quanto si pensi e la conferma arriva dall’effetto poco più che placebo di quell’immane quantità di denaro inserita nel sistema, capace oltretutto di far festeggiare le Borse soltanto per un paio di giorni.

Il redde rationem della Cina con la realtà economica e di indebitamento che finora la retorica del governo ha nascosto sotto il tappeto, sembra essere alle porte. E questa tabella lo conferma, parlando chiaramente la lingua di un indebitamento locale sempre più fuori controllo proprio (casualmente) nei distretti produttivi, i veri motori della locomotiva produttiva cinese. E, quindi, di rischi crescenti nel comparto obbligazionario e del sistema bancario ombra che lo hanno reso possibile e fatto crescere a dismisura negli anni.

Serve molto più di quanto abbiamo visto finora da parte delle Banche centrali, serve un Qe non solo in piena regola, ma di dimensioni mai viste e sincronizzato, quantomeno fra Usa e Cina. Le quali, non a caso, fingono di farsi la guerra commerciale e scatenano ogni proxy possibile, dal Venezuela al Pakistan fino alla Corea del Nord. Serve liquidità, a pioggia. Perché il mondo sta morendo soffocato dal debito e disidratato da mancanza di contante e collaterale per servire quest’ultimo, siamo ormai in un meccanismo quasi faustiano da cui non si esce. Quantomeno, non con mezzi ordinari.

È il new normal, signori. È l’incubo dentro il quale il mondo si troverà a combattere per i prossimi decenni. Fino alla sfida finale, quella che deciderà chi governerà il nuovo sistema. Siamo solo all’inizio, perché per scatenare quanto serve al fine di evitare che il sistema collassi stile 2008 o peggio, occorre che la situazione peggiori – e di molto – per poter dare mano veramente libera alle presse. Ora inizia il bello. O il brutto, fate voi.