Nel giorno in cui il presidente cinese Xi Jinping sbarca in Italia, in attesa di firmare sabato il Memorandum of Understanding sulla Nuova Via della seta, dopo il sì della Camera, due giorni fa, alla mozione di maggioranza, sull’accordo con Pechino continuano ad aleggiare speranze, timori, dubbi e preoccupazioni. E soprattutto: l’Italia fa bene a firmare questo accordo sulla Belt and Road Iniziative? Porterà vantaggi? Corriamo anche dei rischi? E in tal caso, come possiamo cautelarci? “A parte il fatto che ancora non si conoscono i contenuti del Memorandum – risponde Amedeo Lepore, professore di Storia economica all’Università della Campania “Luigi Vanvitelli” – secondo me il problema è che l’accordo sulla Nuova Via della seta non va valutato in base a pregiudiziali ideologiche, di contrapposizione o di chiusura. E’ giusto però guardarlo con serietà, sapendo che c’è un interesse geopolitico in ballo e tenendo ben presenti due aspetti decisivi, da non sottovalutare: il multilateralismo, perché se si coinvolge l’Europa questa crescita di dimensioni ci favorirebbe nella trattativa, e la reciprocità dei vantaggi”.



Secondo il premier Conte i vantaggi non mancano: l’Italia fa bene a firmare questo Memorandum of Understanding con la Cina, perché rappresenta “una chance importante per la crescita e l’export italiano”. E’ davvero così?

Innanzitutto, per poter esprimere un giudizio compiuto, bisognerebbe conoscerne i contenuti. Si parla di un accordo programmatico non vincolante e nei giorni scorsi era stata pubblicata una bozza del MoU, che poi il sottosegretario Geraci ha però smentito. Credo comunque che questo accordo quadro con la Cina richiederà altri accordi sottostanti, si è parlato di 16 ma anche su questo punto non si hanno particolari notizie, se non da fonti di stampa cinese. Ma una premessa è d’obbligo.



Prego.

L’apertura e l’integrazione internazionale sono un bene, all’interno di una competizione globale in cui ciascun Paese possa mettere in mostra le migliori qualità e capacità. La logica della chiusura e dei muri, va evitata, perché la globalizzazione deve essere un processo positivo, ma va governata. E da questo punto di vista credo che, prima della sua sottoscrizione, una valutazione, seria e approfondita, su questa iniziativa si imponga, perlomeno al livello delle istituzioni più rappresentative. Di sicuro possiamo dire che non si tratta di un trattato internazionale, perché altrimenti la sua approvazione avrebbe richiesto ben altra discussione e modalità di decisione.



Chiusa la doverosa premessa ed entrando un po’ nel merito…

A mio avviso ci sono due temi decisivi da approfondire: il carattere multilaterale dell’iniziativa e la reciprocità degli accordi e dei vantaggi. Altrimenti c’è il rischio di firmare un accordo bilaterale anche svantaggioso.

Per “carattere multilaterale” che cosa intende?

Penso sia sbagliata l’esclusività, credo invece sia necessario il confronto con gli altri Paesi Ue e con gli Usa, alleati tradizionali, per valutare insieme la tipologia dell’accordo. Spero lo si faccia, anche se si sarebbe già dovuto fare. L’Italia può anche recitare un ruolo da frontman, ma in raccordo con gli altri partner.

Qual è, altrimenti, il rischio?

Viaggiare isolati ci isola ancora di più e non ci dà maggior forza di competere. Ci troviamo di fronte a una grande potenza con piedi d’acciaio, che dopo essersi dedicata come scelta strategica alla crescita del mercato interno, sta ora passando a pianificare una crescita nel mercato globale, creando vie di penetrazione nel mercato globale. Sarebbe sbagliato rifiutare pregiudizialmente la Nuova Via della seta come terreno di confronto, ma è un errore anche accettarla supinamente.

Perché?

Abbiamo esperienze, nella storia, di imperi – è il caso di Portogallo, Olanda, Inghilterra – che hanno basato la loro forza sugli interessi economici. Anche se noi siamo un Paese sicuramente rappresentativo, siamo ancora la seconda manifattura d’Europa e tra le economie più avanzate dell’Occidente, c’è una sproporzione di dimensioni con la Cina di cui dobbiamo tener conto, perché non possiamo certo pensare di poter competere ad armi pari. Bisogna, poi, capire se da questo accodo quadro scaturiranno altre intese stringenti su materie sensibili. Sono temi che non si possono lasciare sotto traccia.

La scelta dell’Italia di aderire, primo Paese del G7, alla Belt and Road Iniziative sembra sia stata dettata esclusivamente da ragioni economiche e commerciali. Ci sono però anche gli interessi geopolitici. E’ un errore sottovalutarli?

L’interrogativo è fondato. Tanto che assistiamo, proprio in questi giorni, a una correzione di rotta, che valuto positivamente, ma che arriva, con un po’ di affanno, dopo aver ingenerato preoccupazioni nella Ue e negli Stati Uniti. Soprattutto da parte della presidenza del Consiglio mi sembra sia in atto una riconsiderazione dell’accordo, dettata proprio dagli effetti geopolitici, che non sono di secondaria importanza.

I critici verso questo accordo con Pechino paventano il rischio che così si mettono a repentaglio interessi nazionali in asset strategici, come le grandi infrastrutture o le telecomunicazioni. Lo corriamo davvero?

Ripeto: bisognerebbe conoscere i contenuti dell’accordo quadro. Però, accanto ad alcuni analisti cinesi secondo i quali l’accordo avrebbe una portata più simbolica che economica e al di là di quanto ha scritto sul Corriere il presidente Xi Jinping – secondo il quale “Italia e Cina possono sviluppare il potenziale di cooperazione in settori come la logistica portuale, il trasporto marittimo, le telecomunicazioni e il medio-farmaceutico” -, dalla Cina arriva un altro contributo molto interessante, un contributo che deve indurre a una riflessione seria. Mi riferisco all’ampio reportage, apparso sul “Global Times”, a firma Cui Hongjian, esperto di Ue presso l’Istituto per gli studi internazionali cinesi, che aiuta a capire quali siano gli obiettivi della Cina.

Quali sarebbero?

C’è un’affermazione piuttosto forte su due temi. Uno: l’Italia ha seri problemi economici, e quindi questo accordo potrebbe rappresentare un vantaggio. Mi domando: che tipo di vantaggio?

E la seconda affermazione forte?

L’Italia ha un grave problema di immigrazione e questo accordo potrebbe aiutare a risolverlo, visto che né gli Usa né l’Unione europea hanno dato una mano al nostro Paese. Inoltre viene sottolineato che obiettivo di Pechino è investire nelle Pmi italiane, fare investimenti nel settore finanziario e nel campo delle energie rinnovabili. C’è, poi, un altro punto molto delicato: la cooperazione sul piano scientifico-tecnologico. Parliamo cioè di telecomunicazioni, big data, intelligenza artificiale, sicurezza, tecnologie militari e qui bisognerebbe riflettere a fondo, visto che è in atto una competizione tra Cina e Usa non tanto sul piano commerciale, questo è solo l’epifenomeno, ma sulla stessa leadership tecnologica globale.

Xi Jinping ha rimarcato il forte interesse per le infrastrutture, a partire dalla logistica portuale…

Certo, in particolare interessano quattro porti: Genova, Trieste, Palermo e Ravenna. E si fa riferimento al modello del Pireo, che, proprio in seguito all’immissione di capitali e di governance cinesi, ha avuto una crescita esponenziale, diventando una meta privilegiata del trasporto container, a tal punto da creare qualche preoccupazione in alcuni Paesi europei. Anche in questo caso, rifletterei molto sulla convenienza dei nostri porti ad adottare il modello Pireo, che è stato un intervento molto invasivo, non certo un investimento a latere.

Perché Pechino punta ai nostri porti?

L’interesse va in due direzioni: l’ingresso delle merci cinesi in Europa e l’export delle merci europee verso la Cina. Ma qui si torna al nodo del multilateralismo: non vedo come questa funzione reciproca rispetto a quella di semplice importatore di merci cinesi si possa realizzare senza la contestuale condivisione dei Paesi Ue coinvolti. Non solo: quando si parla di porti container, si parla soprattutto di merci in arrivo, non in partenza; dunque andrebbe anche verificato se e come questa funzione di uscita può garantisce la reciprocità di cui parlavo all’inizio.

Come cautelarci?

Spero che il richiamo alla golden power per evitare che gli investimenti cinesi in questi settori possano essere invasivi, portando ad assumere il controllo di settori strategici per la nostra economia, e che le altri rassicurazioni fornite dal governo siano fatte valere, dentro un accordo che rispetto al testo originario mi risulta ancora soggetto a discussioni e modifiche.

Nel mondo già 68 Paesi, di cui 13 in Europa, hanno sottoscritto un MoU con la Cina. Questi numeri non tranquillizzano?

I Paesi Ue che hanno aderito sono: Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Grecia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Portogallo, Slovacchia, Slovenia e il Lussemburgo che è in fase di trattativa. Bisognerebbe valutare quali conseguenze, in termini di reciprocità degli interessi, produce questo tipo di accordi.

Emerge già qualche elemento?

Prendiamo la Polonia, dove si è determinata quella che viene definita la trappola del debito. Vale a dire, il deficit commerciale della Polonia con la Cina è passato dai 10,3 miliardi di dollari nel 2012 ai 28,4 miliardi. Questa trappola, che potremmo riscontrare negli altri Paesi, ci dovrebbe far riflettere, perché, da un lato, anche noi abbiamo già un deficit commerciale con Pechino di 12 miliardi e, dall’altro, non è così certo che questi accordi garantiscano una reciprocità vantaggiosa, almeno in termini di bilancia commerciale.

Però l’Italia ha spalle più larghe rispetto a quei Paesi. Cosa si può fare per non cadere nella trappola del debito?

Una cosa non deve sicuramente fare l’Italia: starei molto attento a consentire alla Cina di acquistare titoli di Stato. Sta succedendo nei Paesi africani, che pure sono realtà completamente diverse: nel momento in cui la Cina realizza con i propri capitali le infrastrutture e i Paesi non sono in grado di rimborsare i prestiti ricevuti, succede che si determina una trappola del debito.

All’inizio, parlando di multilateralismo, si auspicava un coinvolgimento dell’Europa, ma è purtroppo chiaro che l’Europa non si sta muovendo, non crede?

Sì, l’Europa non si muove, ma noi avremmo la possibilità di far muovere l’Europa su questo tema.

C’è chi dice che aderendo alla Nuova Via della seta il Mediterraneo, e di riflesso il Mezzogiorno d’Italia, potrebbe tornare a essere un’area commerciale cruciale. Che ne pensa?
Io non credo che sia in prima battuta la Nuova Via della seta a riportare il Mediterraneo nel novero delle aree logistiche e geopolitiche centrali nel mondo. Il Mediterraneo è tornato, dopo alcuni secoli di prevalenza dell’Atlantico e grazie soprattutto al raddoppio del Canale di Suez, a essere un baricentro e può giocare un ruolo fondamentale di connessione. Anzi, lo sta già giocando.

E il Mezzogiorno?

Deve candidarsi a svolgere un ruolo euromediterraneo fondamentale, sia verso il Sud sia verso il Nord Europa. Ma per farlo vanno non solo potenziate le grandi infrastrutture della logistica, per esempio la linea dell’alta capacità Napoli-Bari o la Salerno-Reggio Calabria o i collegamenti interni alla Sicilia, ma anche avviata la trasformazione dei nostri porti, rafforzata l’intermodalità, che oggi manca del tutto, e completata la connessione tra porti, interporti e aree industriali, che è un po’ lo spirito con il quale si sono costruite le Zone economiche speciali, un progetto oggi in stallo. Anzi, le Zes, in questa prospettiva, non sono certo un tema secondario e sarebbe utile rilanciarle con forza.

(Marco Biscella)