Al Sud è necessario unire e non dividere, agire e non attendere, politiche a lungo termine e non politiche di breve periodo, e che lo Stato torni a svolgere la funzione di regolazione, programmazione e controllo degli investimenti. Queste parole sono scolpite in neretto nella nota per la stampa che l’Osservatorio Banche e Imprese ha distribuito durante la presentazione dell’ultimo rapporto sul Mezzogiorno, naturalmente tra divari e sviluppo.
Il dato più rilevante è anche quello più scontato, nel senso che è ampiamente metabolizzato da studiosi e comuni cittadini: la distanza economica tra l’area ricca e quella povera del Paese riprende ad allargarsi dopo un paio d’anni di timido riavvicinamento. E questo mentre l’intera nazione arretra subendo e amplificando la battuta d’arresto europea nel quadro di un andamento internazionale in generale poco rassicurante.
Insomma, le cose vanno maluccio un po’ dovunque in Occidente – anche per le guerre commerciali dichiarate e non -, ma da noi vanno peggio che maluccio e la parte debole del Paese ne risente in modo particolare, come dimostra il calo della produzione e dei servizi, la disoccupazione specialmente giovanile, la fuga di chi può permettersi di andare all’estero o comunque ci va per disperazione. Tutto già scritto.
La cosa più impressionante, infatti, è la ripetizione di espressioni e considerazioni già fatte. Vecchie di decenni visto che il tema fu tra i più discussi nel primo Dopoguerra, quando nacque addirittura una Cassa per provvedere ai bisogni di territori e popolazioni che uscivano da condizioni di marginalità estrema e diffusa ignoranza. Condizioni che oggi ci riesce perfino difficile immaginare tanti sono i passi in avanti comunque compiuti.
Tutti sanno, o dovrebbero sapere, che c’è stato un tempo in cui le opere nel Mezzogiorno si sono fatte e i progressi si sono avuti grazie a una classe dirigente preparata e consapevole del ruolo che andava ad assumere. Conquistare una poltrona, una semplice sedia, uno scranno, voleva dire occupare pienamente e responsabilmente quello spazio per ottenere risultati visibili e apprezzabili da tutti. Ad avanzare era l’intera società.
Certo, si dirà adesso che quel cammino è stato compiuto anche grazie alla spesa allegra o comunque fuori controllo che oggi contribuisce a formare il nostro debito pubblico. Un macigno che ci portiamo dietro e che rallenta o rende vano ogni tentativo di riprendere la strada dello sviluppo. In parte è vero, ma è un ragionamento condizionato dalla resa della politica alle ragioni della burocrazia e dei parametri che la rappresentano.
In una realtà divisa letteralmente in due, con il pezzo di sotto del Paese che sconta una ricchezza pro capite pari alla metà della parte di sopra, solo una forte volontà politica può superare gli ostacoli che si frappongono al ricongiungimento. Una forte volontà politica nazionale, s’intende. Perché voler scaricare solo sulle classi meridionali il peso del riscatto è un modo per non risolvere il problema e, anzi, per peggiorarlo.
È vero, le colpe di chi ha amministrato e amministra comuni e regioni sono grandi. I fondi europei sono stati spesi male e meno di quanto fosse possibile e necessario. La litigiosità e l’inconcludenza si sono sostituite alla collaborazione e alla capacità di fare… Ma lo Stato ha alzato bandiera bianca troppo presto e in modo così evidente che si è persa la fiducia nella possibilità che l’impegno sia riconosciuto e in qualche modo paghi.
E su tutto questo incombe l’incognita dell’autonomia più o meno rafforzata.