Nella reazione europea al memorandum tra Italia e Cina colpiscono le parole di Juncker. Il Presidente della Commissione, in appoggio alla contro-iniziativa di Francia e Germania, ha dichiarato che “per noi oggi la Cina è un concorrente, un partner e un rivale” e poi ha aggiunto che “esiste uno squilibrio commerciale e le asimmetrie creano squilibri, non possiamo costruire qualcosa di stabile sulla base di squilibri persistenti. Manca la reciprocità nei nostri scambi commerciali, e la concorrenza tra Cina ed Europa non ha una base egualitaria”.
Sono dichiarazioni che ci provocano una sensazione di incredulità. Gli squilibri commerciali tra l’Unione Europea e il resto del mondo e quelli all’interno dell’Unione Europea sono non solo enormi, ma in constante crescita. Parliamo di squilibri fuori scala sia in termini di surplus commerciale, sia in termini di investimenti netti. Se la tesi è che gli squilibri commerciali creano squilibri e che su questi squilibri non si può costruire qualcosa di stabile, come sostiene Juncker, che giudizio dobbiamo dare dell’Unione Europea e della sua attuale traiettoria?
Constatiamo il fatto, suffragato da qualsiasi evidenza economica, che negli ultimi dieci anni gli squilibri all’interno dell’unione tra Paese membri e tra Germania e partner extraeuropei sono esplosi. Leggiamo le analisi di economisti come Stiglitz e non possiamo non concordare che le attuali regole stanno determinando squilibri politici ed economici che condannano intere nazioni europee al declino. Parliamo dell’impossibilità di tirarsi fuori da situazioni di crisi all’interno delle attuali regole indipendentemente dalla bontà di governi e riforme. Il caso emblematico rimane la Grecia, quella stessa del porto del Pireo venduto ai cinesi.
Oggi assistiamo alla sorpresa dei nostri partner europei e sinceramente non capiamo se è uno scherzo. L’Italia dovrebbe tirarsi fuori da 20 anni di crisi con il debito su Pil al 130% un quarto della produzione industriale perduta e la disoccupazione al 10% all’interno dell’”austerity”, sotto la costante minaccia di clausole sull’Iva devastanti e con il controllo sulle seconde cifre decimali del deficit quando chiunque capisce che occorre uno shock di investimenti pubblici e stimolo fiscale. In questa situazione, con la stretta creditizia delle banche, l’Italia conclude, forse per disperazione e in modo incosciente, che non può concedersi il lusso di dire di no agli investimenti cinesi con tutti i rischi che questo può comportare. Tra la morte certa e il salto nel buio chiunque alla fine prende il salto nel buio.
Ci facciamo fare la morale da Macron che ci manda indietro i migranti e che parla da un Paese che ha colonizzato l’Italia. Ci diranno giustamente che qualcuno vendeva in Italia, verissimo, però ripercorriamo la storia di “deal” che potevano cambiare il corso degli eventi come quelli di Enel in Francia o rileggiamo la governance imposta a operatori privati italiani che hanno investito in aeroporti francesi. È una via a senso unico esattamente come quella che si teme con la Cina. E tutto avviene con il “ricatto” della trappola del debito. Non sappiamo che con l’austerity europea del 2012 il debito su Pil italiano è esploso via contrazione “inattesa” del denominatore? E che oggi con le banche devastate e il debito esploso siamo ricattati costantemente dall’Europa?
C’è una differenza abissale però. Una società francese o tedesca che investe in Italia non ha bisogno di alcuna testa pensante al di qua delle Alpi. La distanza è troppo prossima. Abbiamo un’infinità di casi di aziende europee che dopo aver comprato in Italia hanno fatto piazza pulita di centri di ricerca e centri direzionali. Un’azienda cinese o australiana offre condizioni molto migliori non perché siano più buoni, ma per una mera ragione geografica. Ci offrono per questo un deal migliore. Questo è chiaro come il sole.
Ci muoviamo all’interno della solita voluta confusione sulla differenza tra l’Europa che c’è, un’istituzione al servizio del centro franco-tedesco, e quella che avrebbe dovuto essere. La chiusura dell’Europa nei confronti della Cina non è a favore degli europei, ma a favore delle imprese francesi e tedesche che rimangono senza competizione potendo fare il prezzo. La contromossa dell’Unione Europea non è la contromossa dell’Europa, è la contromossa di francesi e tedeschi rispetto alla possibilità ormai vicina di certificare per sempre vincitori e vinti del processo di unificazione europea. Oggi ci si è assicurati, via austerity e contrazione del credito, che l’Italia non possa mai crescere di più o meglio del resto d’Europa: è un dato di fatto. In questa situazione ci siamo infilati anche con le nostre mani, ma questo non toglie nulla alle condizioni attuali. È così. Nelle regole attuali e nel paradigma attuale dell’Europa, l’Italia è condannata a un declino strutturale come ci ricordano con sempre maggiore insistenza economisti illustri di estrazione diversissima.
Le preoccupazioni dell’”Europa” non hanno niente ma proprio niente a che fare con democrazia e diritti umani. Stiamo parlando di Paesi che, giustamente, fanno affari, come tutti, con alcune delle peggiori dittature del pianeta. È che sia così ce lo dimostra senza margini di errore Juncker con dichiarazioni di un’ipocrisia infinita. L’unica cosa che disturba l’Europa è che l’Italia si svincoli dalla situazione di colonia europea di fatto in cui è finita. Ed è tutto talmente vero che non si pongono nemmeno il problema di offrirci condizioni simili in termini di possibilità di investimento. Perché spendere quando si può ottenere il risultato con la “forza” di istituzioni europee in cui assistiamo a scalate stile Selmayr o agli “errori” sulle banche dei commissari?
Diciamo tutto questo non per difendere accordi di cui non conosciamo il contenuto, ma per smascherare l’ipocrisia dei nostri “partner”. Come dicono gli inglesi con la solita brutalità: con amici come questi, chi ha bisogno dei nemici?