È presto per dire – come suggeriscono varie testate, anche non necessariamente contigue al Governo giallo-verde – che l’Italia verrà ricordata come precursore delle relazioni tra Europa e Cina (come verrebbe sancito al vertice tra Unione europea e Pechino in programma il 9 aprile). È anche presto per valutare i numerosi accordi conclusi tra Ministeri e imprese a partecipazione statale italiane e le loro controparti cinesi in occasione dell’appena conclusa visita di Stato di Xi Jinping nel nostro Paese: sarebbe stato utile, e democratico, farli conoscere in dettaglio e discuterli in Parlamento anche per evitare i trabocchetti e le trappole di cui Francesco Sisci e Giulio Sapelli hanno parlato su questa testata.
Per il momento, un aspetto è certo: l’Italia si è trovata isolata al Consiglio europeo che si svolgeva quasi negli stessi giorni a Bruxelles e non è stata invitata all’incontro “europeo” tra Macron, Merkel e Juncker, da un lato, e Xi Jinping, dall’altro, in programma domani a Parigi. Inoltre, l’insistenza di Roma per avere un mini o bikini vertice bilaterale con Parigi in margine della riunione del Consiglio europeo sulla Lione-Torino ha non poco irritato i francesi: seguendo il detto secondo il quale “un caffè non si rifiuta a nessuno”, lo hanno concesso, ma hanno ribadito che occorre rispettare accordi presi e trattati firmati e che i problemi italo-italien tra le controparti del “contratto di governo” non interessano che gli elettori italiani.
Nella pompa delle cerimonie per la visita del Presidente della Repubblica Popolare e del Partito Comunista Cinese, il Presidente della Repubblica italiana ha sollevato, correttamente, il tema dei “diritti umani” in Cina, ma nessuno ha parlato, forse per buona educazione, delle difficoltà dei cinesi all’interno dell’Impero di Mezzo. In effetti, poco o nulla si sa sulla situazione politica interna e sulle guerre e guerriglie a Nord (Mongolia) e a Est (Tibet, aree nei pressi di quella che fu l’Indocina) e ancora meno sugli intrighi in corso nella Città Proibita che da duemila anni caratterizzano i cambiamenti di governo, specialmente se la leadership mostra segni di logoramento.
È noto che la statistiche cinesi sono poco affidabili, come sottolinea ogni anno il Fondo monetario internazionale nelle periodiche consultazioni con Pechino; quindi il tasso di crescita del 6% che starebbe caratterizzando il 2019 cinese va preso con le molle. Tuttavia, ci sono indicatori e indicazioni che se letti con cura danno la direzione di una svolta del quadro economico in atto. Gli indicatori sono quelli della bilancia dei pagamenti pubblicati dal Fmi (e che possono essere integrati con quelli della Banca dei regolamenti Internazionali). Le indicazioni sono quelle che provengono da reportage di stampa (non certo cinese o di Hong Kong, soggette a censura, e neanche occidentale, cauta perché informazione sgradita alla Città Proibita può causare guai seri ai corrispondenti) di Singapore: il 90% della popolazione della Città Stato è cinese e ha una fitta rete di rapporti con “famiglie estese” e amici che risiedono nella Repubblica Popolare.
La bilancia delle partite correnti (commercio di beni, scambi di servizi, turismo, reddito da investimenti all’estero) è stata per vent’anni caratterizzata da forti eccedenze attive che hanno consentito alla Cina significativi investimenti finanziari all’estero e anche l’acquisto, alla grande, di buoni del Tesoro stranieri. Nel 2018 appena concluso, il surplus della bilancia delle partite correnti è stato pari allo 0,4% del Pil. Nel 2019, sia il Fmi, sia Morgan Stanley, sia la Banca dei regolamenti internazionali stimano che per la prima volta del 1993 la bilancia dei pagamenti cinesi segnerà un passivo. Potrebbe verificarsi un anno più tardi, ossia nel 2020. Ciò che conta è l’inversione di tendenza.
Di per se stesso, il deficit della bilancia dei pagamenti non è, nel breve periodo, preoccupante: la Cina ha accumulato 3 milioni di miliardi di dollari di riserve, un cuscinetto che le consente di guadagnare tempo per formulare e attuare una strategia ben articolata. Sinora Pechino ha tenuto controlli molto rigidi e sul cambio e sui movimenti di capitale. Occorre capire se Pechino adotterà una strategia più flessibile sia per il cambio che per i movimenti di capitale (e iniziare un processo virtuoso d’integrazione nell’economia internazionale), come suggerito da un libro, fresco di stampa, del Fmi, o se cercherà di mantenere controlli amministrativi centralizzati (e tamponare le falle con vari marchingegni). Tuttavia, la svolta della bilancia dei pagamenti non è un fenomeno di breve periodo attinente ai conti con l’estero, ma un indicatore che sottintende cambiamenti più profondi. E più preoccupanti.
È noto che l’indebitamento con l’estero di un Paese è sempre specchio di disavanzi interni. Il centro di ricerche della Nataxis Asia Research ha esaminato l’aumento dell’indebitamento della Cina per settore economico. Il centro studi Bruegel ha elaborato stime dell’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni cinesi distinguendo quello dell’amministrazione centrale da quello delle singole province e anche quello delle imprese e delle famiglie. In breve, l’indebitamento delle grandi imprese è diminuito, a ragione dei forti sforzi del Partito e del Governo di imporre un deleveraging, ma è aumentato rapidamente quello delle famiglie. In parallelo, c’è stata una vera e propria ascesa dello stock di debito pubblico rispetto al Pil.
Nel complesso, tenendo conto dei tre comparti (imprese, famiglie, pubbliche amministrazioni), il debito è in aumento, anche se – secondo Bruegel – non è ancora ai livelli di guardia. Meno ottimista The Economist Intelligence Unit; in un rapporto accessibile solo agli abbonati, rileva che La via della seta è anche uno strumento per indurre altri a indebitarsi con la Cina: le buone condizioni di finanziamento offerte vanno vagliate con estrema cura.
In questo quadro, vanno situate le nuove norme sugli investimenti esteri approvate dalle autorità di Pechino. Su lavoce.info, Andrea Goldstein di Nomisma e Marco Marazzi di Eastern National hanno approfondito questo punto, esaminando in particolare la nuova Foreign Investment Law che, approvata alla vigilia quasi della recente “offensiva” cinese in Europa, entrerà in vigore solo nel 2020 una volta promulgati i decreti attuativi. In sintesi, la nuova normativa rafforza il fatto che in Cina, nonostante tutto, le imprese straniere hanno maggiore protezione di quelle locali, in balia degli umori cangianti dei politici nazionali e locali. La filosofia complessiva va nella direzione di promuovere e proteggere gli investimenti esteri (introducendo in particolare il principio della “lista negativa” dei settori protetti, al posto delle autorizzazioni caso per caso), consolidare e semplificare la legislazione (anche per evitare incoerenze tra Pechino e le Provincie) e garantire un piano di gioco “piatto” (laddove ora le imprese statali riescono a mantenerlo inclinato a proprio favore).
Altra novità è che la nuova normativa unifica il diritto societario per le aziende a capitale straniero con quello per le aziende a capitale cinese, mentre finora era stato separato, un’anomalia che esiste in pochissimi Paesi. Goldstein e Marazzi sottolineano che restano molti punti interrogativi. Innanzitutto, ci vorrà del tempo prima di conoscere nei dettagli la legislazione secondaria, che incide veramente sulle operazioni di business. Resta incerto il significato delle disposizioni sulle potenziali implicazioni degli investimenti esteri sulla sicurezza nazionale, anche perché l’articolo 35 stabilisce che le decisioni prese dalle autorità non sono appellabili. In più, per il momento non è per nulla chiaro cosa succederà alle società già esistenti e registrate secondo le leggi del 1979. Goldstein e Marazzi avvertono che quando si parla di Cina, non ci si deve mai dimenticare che i confini tra politica ed economia sono poco chiari e le informazioni sui processi decisionali scarse.
A Pechino si è consapevoli che il tasso di risparmio sta crollando a ragione della contrazione dell’economia agraria (dove era tradizionalmente molto alto). La one child policy (in base alla quale una famiglia poteva avere solo un figlio) sta presentando il conto: la popolazione invecchia rapidamente, mancano i giovani e il sistema previdenziale particolaristico-occupazionale (modellato per intenderci sulle assicurazioni sociali bismarckiane) non regge. La politica edilizia e industriale ha seri problemi: ci sono 20-30 milioni di unità abitative vuote nelle Province del Sud e ci sono crescenti segni di disoccupazione non solo operaia (a ragione della trasformazione tecnologica), ma anche impiegatizia e manageriale. Sulla stampa di Singapore giungono echi di industrial actions, ossia scioperi.
In breve, la via della seta pare non solo un modo di aggirare (con un mosaico di intese bilaterali) le regole di fondo dell’Omc, ma anche una strategia per fare fronte alla nuova situazione economica senza seguire, però, la via maestra dell’integrazione virtuosa nell’economia internazionale. Rivela che la Cina, in difficoltà economiche (e forse anche politiche), sta cercando puntelli a cui appoggiarsi: l’Italia, non priva di problemi per conto proprio, sarebbe stata individuata sia come un punto di appoggio, sia come un “cavallo di Troia” per entrare nell’Ue. Date le dimensioni del Paese, e il ruolo nell’economia mondiale, una risposta coordinata a livello europeo è senza dubbio, più efficace di risposte bilaterali.