C’è un gap cognitivo – cioè un’enorme differenza di sapere – alla base del boom dei “tech giant”, i giganti di Internet colpiti dalla direttiva sul copyright che la Commissione europea, in un sussulto di civiltà, ha proposto e che il Parlamento di Strasburgo ha approvato a larga maggioranza l’altro ieri. Il gap cognitivo su cui hanno fatto leva Google, Facebook, Amazon e Apple per crescere finora riguarda la scarsissima consapevolezza che la privacy sia un bene prezioso e che – come la primogenitura cui Esaù rinunciò per un piatto di lenticchie – non vada abbandonata e ceduta per il futile scopo di vedersi in cambio gratis l’ennesimo filmato di un gattino che ruzzola o l’ennesimo spezzone di una rissa da talk-show.



Ma questo la gente non lo sa, ovvero non lo capisce. Perciò la direttiva, che strappa di mano ai tech-giant una (una sola, purtroppo) delle numerose armi con le quali ci ipnotizzavano inducendoci a regalargli i nostri dati, è un primo passo verso un riscatto di qualcosa che senza enfasi va definita come una parte essenziale della dignità dell’uomo contemporaneo.



Due esempi semplici per capirci. Si va in un albergo, si chiede una camera, e ci si vede chiedere dal portiere di firmare la rinuncia alla privacy rispetto alla possibilità che l’albergo stesso o sue “terze parti” (altri fornitori) ci possano inviare pubblicità all’indirizzo di casa. Per lo più, la maggior parte di noi nega il consenso per non ricevere a casa inutile paccottiglia, paga la camera, prende le chiave e la usa. Non scambia la privacy con un sorriso del portiere.

Ma quando un nuovo sito web ci chiede il consenso al tracciamento dei nostri cookies, ovvero di accettare nel nostro pc quelle spie digitali che rivelano al gestore del sito i nostri movimenti, noi clicchiamo di sì senza pensarci, perché se cliccassimo di no non potremmo navigare in quel sito. Quindi in albergo il nostro no non ci toglie il diritto di usare la camera perché la stiamo pagando in denaro; sul web il nostro no ci priva del diritto di navigare nel sito. Perché questa differenza? Perché quel nostro “sì” è denaro, per il sito. È un modo con cui ci fanno inconsapevolmente pagare il diritto ad accedere ai contenuti del sito.



Qui s’innesca il discorso sui copyright. Troppo spesso i contenuti dei siti per navigare nei quali rinunciamo alla nostra privacy con la stoltezza di Esaù quando rinunciò alla primogenitura, sono contenuti scippati ad autori che li hanno prodotti sperando e contando di poterli vendere, e non di doverli regalare. Contenuti che posso essere frutto di un ingegno artistico o professionale vero e proprio, confezionati come tali e virtualmente passibili di commercio; o possono anche essere semplici moti dell’animo, non strutturati in forma di prodotto vendibile, eppure appartengono comunque a noi in quanto autori naturali di comunicazione.

Ebbene: poiché, inseriti per esempio nelle piattaforme digitali dei social network, i nostri contenuti, pur se amatoriali, generano traffico e il traffico genera fatturato pubblicitario, sarebbe giusto che i proventi di questo fatturato fossero se non tutti retroceduti a noi, in quanto produttori dei contenuti, almeno divisi tra noi produttori di contenuti e le piattaforme che li hanno distribuiti. Invece Google e compagni si guardano bene dal condividere i loro abnormi guadagni con chicchessia.

Ebbene: d’ora in poi, almeno in Europa, avranno filo da torcere. Per scongiurare questo danno si sono impegnati allo stremo con un’attività di lobbing senza precedenti ma non ci sono riusciti. Però attenzione: è appena l’inizio del riscatto della civiltà umana contro la “webarbarie”.

I tech-giant si stanno comportando da anni – primo fra tutti Google, con la divisione delle attività diversificate Alphabet – come ciclopici fornitori integrali delle soluzioni a tutte le nostre esigenze. Le ultime iniziative di Apple riguardano carte di credito, televisione e videogiochi. Google si dedica a sanità e guida autonoma. Amazon fa televisione… È un approccio pervasivo, la pretesa di prenderci per mano, portarci come ipnotizzati dentro le loro famose piattaforme e non farcene più uscire, spillandoci quattrini.

I tech giant non sanno come faranno ricavi tra cinque anni perché l’inflazione di messaggi pubblicitari (che loro stessi hanno diffuso nel mondo per vivere finora) sta ovviamente determinando una svalutazione del valore di questi messaggi, che taglierà via via fette sempre maggiori di ricavi ai Big. I quali, per ovviare, stanno ultradiversificando le loro attività. Ebbene: no. Quest’approccio integralista bulimico va fermato e l’unico modo l’ha ufficializzato, a livello di programma di governo, la candidata alla nomination democratica per la Casa Bianca 2020 Liza Warren: è indispensabile fare in cento pezzi i giganti, come fu fatto nel ’65 con la Standard Oil o nell’89 con la At&t. Sembrarli per indebolirli.

L’oligopolio di questi mostri del potere mediatico va smontato. La loro tendenza all’evasione fiscale globale neutralizzata. Millantano di aver migliorato il mondo: non è così, hanno introdotto, certo, servizi utili ma accanto a nefasti veleni sociopsicologici e commerciali, non vanno più protetti – com’è ahinoi accaduto nell’ottennio obamiano – da alcun pregiudizio qualitativo, sono squali e niente più. Internet non è buona né cattiva, è quel che ne saprà fare l’uomo, e il monopolista è una brutta specie di uomo, appena un gradino al di sopra del killer, perché uccidere la concorrenza significa uccidere la differenza, e uccidere la differenza equivale a uccidere l’umanità.