Volete capire meglio il senso, la gravità e la profondità dell’allarme recessione lanciato ieri da Confindustria, la quale ha gramscianamente varcato il Rubicone dell’ottimismo della volontà (o della disperazione, fate voi) per approdare al più sano e consapevole pessimismo della ragione, azzerando le stime del Pil italiano per quest’anno? Bene, occorre parlare dall’altro allora. Mettere in prospettiva. Non vi fidate? Seguitemi, vedrete che domani alla fine della seconda parte di questo articolo, tutto magicamente sembrerà comporsi.
Già, perché oggi è una di quelle giornate in cui uno come me potrebbe limitare il suo compito a poche righe, ringraziare tutto e chiudere la carriera. Perché quando – come mi è accaduto due giorni fa – apri il pc e la versione on-line del Sole24Ore riporta in apertura di homepage questo articolo, nulla ha più molto senso. Già, non solo si è scomodata la lettera scarlatta del Qe4, quando solo la scorsa settimana ancora si avanzavano dubbi riguardo la possibile profondità della prossima recessione, ma, addirittura, si dice chiaramente che senza un’altra bella ondata di stimolo, il mercato è destinato a schiantarsi definitivamente. Anzi, a esplodere insieme alle sue bolle. Signori, trattasi del Sole24Ore. Il mio lavoro, già di per sé inutile, ora è davvero senza senso, un’irredimibile china discendente.
E, al di là dell’ironia che uso quando parlo del quotidiano di Confindustria, non pensiate che non ci lavorino bravi giornalisti, gente che di economia e finanza non ci capisce un acca. Anzi, ce ne sono e parecchi di professionisti in gamba. Il buon Alessandro Plateroti in testa, cultore di uno dei grandi segreti ormai dimenticati del vero giornalismo: parlare chiaro. Il problema è che ormai l’informazione è permeata di spirito social e, quindi, campa di percezione, prima che di notizie. Le quali, per diventare tali e meritarsi come in questo caso una posizione apicale, devono sudare sette camicie, compresse come sono da balle sesquipedali che risultano però estremamente comode per la narrativa del momento. E, piaccia o no, per mesi ha fatto comodo a tutti credere che l’economia americana fosse davvero sana, robusta, strutturalmente solida e sostenibile nei fondamentali macro. Il tutto, certificato dai record quotidiani infranti da Wall Street. Poi il tempo passa, la realtà viene a galla e allora si comincia a mettere in dubbio la Fed e le sue scelte: errate fin da principio, però, non dallo scorso agosto. Anche quando le si riteneva invece logica conseguenza a una crisi ormai alle spalle e a un’economia talmente esuberante da necessitare addirittura un freno, una mordacchia sul costo del denaro: qualcuno – non so se per entusiasmo indotto o estorto, come certe telefonate fatte ai parenti dai sequestrati, con il rapinatore che punta la pistola alla tempia – addirittura avanzava timori di rischi iper-inflattivi per gli Usa. Weimar in the Usa, cari lettori.
In sei mesi, tutto è cambiato. Tutti a dire che in effetti la Fed aveva esagerato, anche se gli alibi di guerra commerciale con la Cina e Brexit permettono ancora il ricorso a sfumature di critica. Non parliamo di Wall Street, tramutata in un batter d’occhio da Sacro Graal della ripresa globale a tempio del buybacks e della manipolazione dei multipli sugli utili. Anche qui, è bastato un battito d’ali sul finire dell’estate. Alle prime foglie rinsecchite, tutti a gridare alla recessione e al mercato dopato. A tal punto da necessitare addirittura il Qe4, parola di Sole24ore. E non vale solo per l’economia e la finanza, questa logica distorta. Ma per tutto, perché come diceva Sun-Tzu, la guerra si basa sull’inganno.
Guardate questa tabella, la quale ci mostra come il numero di attentati terroristici e di vittime a essi correlati nel mondo sia in calo. Sempre tanti, troppi: anche uno sarebbe troppo. Ma, comunque sia, in calo. Soprattutto in Occidente, dove fanno più rumore mediatico e suscitano più ipocrita sdegno e solidarietà pelosa. Nel 2017, le vittime di attacchi di matrice terroristica sono stati, a livello globale, 18.475. La popolazione di Domodossola, più o meno.
Ora guardate questi due grafici, i quali ci mostrano l’evoluzione delle morti per overdose legate a oppiacei negli Usa. Il primo ci mostra i decessi connessi a tutti i tipi di oppiacei, sia legali (farmaci per uso medico) che illegali, stupefacenti fuori legge. Solo nel 2017, siamo a quota 47.600. E solo negli Usa, non a livello globale. Ma a fare sensazione è il secondo grafico, il quale ci mostra le morti per overdose legate a farmaci su prescrizione medica a base di oppiacei, prodotti legali, tra cui il famigerato Fentanyl. Roba che ti prescrive il dottore. Bene, solo nel 2017 e solo negli Stati Uniti siamo a quota 17.029 morti per overdose o abuso. Poco meno del numero di persone in tutto il mondo decedute in seguito ad attacchi terroristici. Solo ora e solo a livello interno, l’America comincia a porsi il problema. Nonostante quegli anti-dolorifici abbiano mietuto due anni fa le stesse vittime di Isis, Al Shabab, Al Qaeda e soci in giro per il mondo.
E sapete da dove arriva la gran parte delle droga oppiacea che, una volta lavorata, diviene di fatto legale? Dalla Cina. Arriva in Messico, dove viene comprata e pagata dai cartelli della droga che la lavorano e la fanno entrare illegalmente negli Usa. E parliamo solo di ciò che si muove su canali illegali e clandestini, c’è poi quella che definirei “tossicodipendenza borghese e federale”, ovvero quella delle prescrizioni mediche. Per il mal di schiena, di ossa, cefalea, cervicale, sciatica. O che, unita a massicce dosi di anti-depressivi e soprattutto alcool, diviene una via di fuga artificiale e a prezzo ragionevole (sigarette e alcolici in molti Stati degli Usa sono acquistabili con i food stamps, i sussidi alimentari federali, non a caso) da una realtà economica e sociale che nell’immaginario era quella dei titoli dedicati, fino allo scorso autunno, ai record di Wall Street. Ma che, a conti fatti, è ben altra cosa.
Ma questo fact-checking, come dicono quelli che parlano bene e ragionano meglio, nessuno ve lo mostra. Il 2008 è stato un Vietnam che ha lasciato ai bordi della società americana un esercito di milioni di ex appartenenti alla classe media caduti nella proletarizzazione più totale: via il lavoro, la casa, la macchina, l’assicurazione sanitaria. Ora, i dati messi in fila da chi si sveglia con debito ritardo nell’analizzare i fenomeni populisti/sovranisti, scopre che anche in Europa, seppur con magnitudo minore, il fallout di quella guerra economica e senza missili ha fatto morti e feriti, in alcune aree più che altrove. Non a caso, già adesso, prima che la parola recessione diventi ufficiale in base a tutti i crismi, assistiamo all’unicum del Sole24Ore che scomoda addirittura il Qe4, quasi a bocce ferme. A tre mesi scarsi dalla fine del Qe reale, quello che tutti hanno celebrato come una pagina chiusa della storia europea. Balle, sia qui che in Usa. Basti vedere la marcia indietro a dir poco imbarazzante della Fed.
Quindi, vi domando, fuor di ironia (che in questo caso sarebbe inaccettabile e insultante) e di retorica: se un quotidiano autorevole, moderato e conservativo nei giudizi come quello di Confindustria già agita il drappo rosso emergenziale del Qe4, ovvero della necessità di un nuovo ricorso a inondazioni di stimolo e liquidità globale, pena il tracollo di un mercato totalmente dipendente e drogato, come gli americani col Fentanyl, quale sarà il grado reale di pericolo che corriamo? Se anche chi, fino a non più tardi della scorsa estate, ha spacciato per reale ed entusiasmante la falsa ripresa Usa (in realtà tutta stimoli federali, scudi fiscali e buybacks delle grandi coprorations, tipo le Fang, che con i loro annunci bisettimanali di rivoluzione epocale del campo tech tengono in piedi da sole quel regno degli unicorni che risponde al nome di Nasdaq), ora si porta avanti con l’allarmismo e scomoda addirittura il Qe4, cosa significa a vostro modo di vedere? E quell’allarme di Confindustria lanciato ieri, rispetto ai rischi strutturali per il nostro Paese a crescita già zero, cosa significa davvero?
(1- continua)