Osservando la dinamica dell’economia internazionale degli ultimi mesi, ci sarebbe da chiedersi cosa rimane del mainstream neoclassico e monetarista, che dal 1975 – da quando, cioè, il democratico Jimmy Carter chiamò Paul Volcker ai vertici della Federal Reserve – condiziona le politiche economiche dei principali Paesi occidentali. Naturalmente in discussione non sono solo i fondamenti teorici del paradigma neoclassico e il suo statuto epistemologico, ma piuttosto l’uso strumentale che ne viene fatto.



Un esempio di questo tipo di utilizzo è la proposta congiunta di Francia e Germania di stanziare un budget comune che possa servire per finanziare le riforme strutturali, che nel nome di una legittima ricerca di una “più solida unione monetaria” e di una “maggiore competitività e convergenza”, vincola al rispetto delle regole la possibilità di accedere alle risorse comuni. Finanziamenti in cambio di riforme strutturali in grado di orientare le economie nazionali all’economia di mercato.



A un primo sguardo sembrerebbe la riedizione in salsa europea del Washington Consensus; invece rappresenta un’ulteriore tappa del processo di consolidamento della relazione speciale fra Francia e Germania, le quali, non avendo alcuna intenzione di ripensare in modo collegiale le regole europee, continuano fermamente sulla loro strada. Stiamo assistendo al sorgere di un nuovo paradigma economico, che se, da un lato, impone alla periferia dell’Eurozona i dogmi della stabilità dei prezzi, della lotta all’inflazione e del riaggiustamento della spesa pubblica – i princìpi che devono informare le famigerate riforme strutturali –, dall’altro, programma il futuro industriale dell’Europa core, sancendo il ritorno dello Stato nell’economia. Un ibrido economico, che condizionerà la politica economica europea dei prossimi anni – che a fronte della sua assertività potremmo chiamare l’Aquisgrana Consensus -, in cui coesistono due piani: quello esplicitato dal manifesto franco-tedesco con cui viene pianificata una sfida alle economie di Usa e Cina e uno, di verso opposto, che ribadisce la necessità di seguire la strada del rigore per i Paesi in ritardo. Lo Stato, il ritorno alla pianificazione dell’industrializzazione e la politica di potenza valgono per Francia e Germania, mentre all’Italia e alla periferia spettano riforme, rigore e mercato.



E’ vasta la pubblicistica che rimarca le differenze strutturali fra l’economia francese e quella italiana, ma risulta oggettivamente singolare come venga completamente rimosso dal dibattito pubblico l’ambivalenza dell’atteggiamento della leadership tedesca e francese, mentre invece venga evidenziata l’insipienza della classe dirigente italiana, incapace di inserirsi nel grande gioco economico e diplomatico che le due grandi potenze europee stanno intrecciando.

A ben vedere, però, il vero problema consiste nel fatto che l’Italia, al momento, è fra gli sconfitti della globalizzazione e sembra incapace di proporre un’alternativa credibile al progetto che si va delineando dopo Aquisgrana. Se la risposta viene ancora ricercata nell’italica propensione a civettare sottobanco con la diplomazia francese o tedesca, siamo destinati ad assistere alla definitiva subordinazione dell’Italia agli interessi stranieri.

Si dovrebbe, piuttosto, riflettere seriamente sul modo in cui la Germania sta provando a disegnare il proprio futuro. Nel piano Nationale Industriestrategie 2030, stilato dal ministro dell’Industria, Peter Altmaier, risulta palese la portata globale della sfida tedesca. Ponendosi l’obiettivo di competere con gli Stati Uniti e soprattutto con la Cina – che ha messo le mani su importanti asset strategici tedeschi e il cui surplus commerciale è l’unico che può rivaleggiare con quello di Berlino – la Germania, in un misto di ordoliberalismo e neomercantilismo, rilancia in grande stile gli investimenti in settori strategici. Lo Stato è il grande protagonista di questa sfida, in cui Industria 4.0, intelligenza artificiale, economie di scala, difesa degli interessi nazionali e industria militare sono elementi inscindibili di un nuovo paradigma industriale che liquida definitivamente tutta la retorica sul libero mercato. In un contesto simile, il no della Commissione europea alla fusione Alstom-Siemens non è semplicemente un incidente di percorso, ma piuttosto il palesarsi della distanza che separa il progetto nato ad Aquisgrana da quello pensato e plasmato dalla tecnocrazia europea, orientata verso i princìpi della libera concorrenza e una visione che rigetta l’intervento dello Stato in economia.

I prossimi mesi ci diranno se questi due modi di concepire l’Unione europea sono ancora compatibili e quale ruolo avrà l’Italia in questo nuovo contesto.

Ad ogni modo, che sia sovranista o sotto la tutela di Draghi, gli interessi dell’Italia sembrano destinati a confliggere con quelli del binomio franco-tedesco. La fase di transizione in cui siamo immersi non ammette incertezze né infingimenti: in gioco è il futuro dell’economia francese e tedesca e la volontà espressa con il trattato di Aquisgrana non sembra accettare vie di mezzo.

Il governo italiano dovrà decidere, prima o poi, se accettarne le linee guida o se opporvisi in modo deciso, ma in entrambi i casi non basterà affidarsi alle ricette di stampo neoclassico o alla fede nella logica del libero mercato. Al contempo, però, le sfide del futuro richiedono l’utilizzo di strumenti e di strategie a cui da tempo il nostro Paese ha rinunciato.