“In una stanza buia non corri, ma ti muovi a piccoli passi”. Difficile trovare una metafora più adatta a descrivere la situazione di quella utilizzata da Mario Draghi nella conferenza stampa a conclusione del direttorio della Bce da cui è emerso, tra l’altro, che il banchiere, in uscita da Francoforte a fine anno, chiuderà il suo mandato di sette anni senza aver mai ritoccato al rialzo i tassi. Un record positivo, ma anche la prova di un fallimento: l’economia non riesce ancora, dieci anni dopo il crollo di Lehman Brothers, a uscire dal tunnel della crisi. Non certo per responsabilità di Draghi o degli altri banchieri centrali che, grazie all’abbondante impiego dell’arma monetaria, hanno evitato i guai peggiori. Ma un conto è arginare il deterioramento della congiuntura, come bene o male è riuscita a fare la Bce (in scia alla Federal Reserve), altro è imprimere una svolta più profonda e duratura, che aiuti a superare contraddizioni e ineguaglianze che si sono accumulate in questi anni.
In questo quadro, forse, è saggio accontentarsi della politica dei piccoli passi, senza aspirare a grandi svolte. Vale per il confronto commerciale tra Washington e Pechino: la più volte annunciata pace sui dazi non risolverà gli squilibri tra le superpotenze, più esasperati che mai. Ma un piccolo, importante passo, c’è stato: le azioni “A” quotate a Shanghai entro giugno entreranno in forma massiccia nei panieri di Morgan Stanley, alla base dei fondi di investimento globali distribuiti in tutto il pianeta. La novità (il peso dei titoli cinesi salirà di quattro volte mobilitando almeno 70 miliardi di dollari nei prossimi mesi) ha già provocato forti aumenti in Borsa, ma, soprattutto, promette di incidere sulla governance del settore privato e sugli atteggiamenti delle autorità pubbliche. Non è certo per caso che l’altro giorno, per la prima volta, una grande assicurazione pubblica è stata bocciata da un “sell” emesso da un’autorità finanziaria. Finora il “buy” era d’obbligo perché patriottico.
Negli Stati Uniti, del resto, è ormai svanito l’effetto traino della riforma fiscale e si è ridotto quello dei buybacks delle corporation. Trump, già in campagna elettorale per la rielezione, invoca nuovi tagli alle imposte che i democratici non concederanno mai. La prossima sfida per la Casa Bianca si deciderà sul fisco: ma stavolta i democratici non avranno paura a presentarsi come il partito delle tasse. A forza di tagli al bilancio, sanità, istruzione e altri servizi essenziali rappresentano un costo sempre meno sostenibile per la classe media. A evitare lo scontro, però, contribuirà l’atteggiamento da colomba della Fed.
Alla stessa prudenza è ispirato l’atteggiamento delle autorità Ue che, in vista delle elezioni europee, cercano di smorzare le ragioni di conflitto interne alla Comunità e di contenere i danni che potrebbe infliggere la Brexit, nel caso di soluzione hard, o la contesa con Donald Trump, specie sull’auto tedesca. Di qui le misure alla giapponese prese all’unanimità dai banchieri centrali della vecchia Europa, rassegnata a crescere a tassi ridotti. La grande battaglia avverrà solo dopo, quando si consumerà lo scontro tra sovranisti ed europeisti, destinato a inasprirsi in parallelo con la Brexit e il confronto con la politica mercantilista di Trump, destinata a irrigidirsi a mano a mano che si avvicineranno le scelte dell’anno elettorale Usa.
Nel frattempo, per i prossimi mesi, la politica dei piccoli passi potrebbe produrre, almeno nel breve, buoni frutti. Le banche centrali, del resto, si sono tenute da parte altre misure espansive, nel caso dovessero servire. Come probabilmente richiederà l’Italia, in bilico costante tra ricreazione e scelte ad alta tensione. Una cosa sola è sicura: il prezzo da pagare sarà senz’altro salato.