Se vi sembra follia quanto ho scritto nella prima parte di questo articolo chiedetevi allora perché il capo economista di Deutsche Bank e un’emittente come Cnbc si siano interessati al fenomeno, ben guardandosi dal caricarlo eccessivamente di importanza, ma inserendolo nel contesto più ampio e molto discusso dell’eccessiva circolazione del contante in un mondo che si vorrebbe elettronico e cash-less. E chiedetevi il perché di quei 20 miliardi di contanti prelevati dai conti bancari dalle aziende italiane. E chiedetevi perché Bloomberg abbia rilanciato con grande enfasi la notizia del presunto coinvolgimento delle principali banche europee (fra cui Deutsche Bank ma anche Abn Amro, Reiffesen, Nordea, Swedbank e Dnb Asa) nel riciclaggio di denaro di dubbia provenienza russa. Addirittura, lo scandalo ha visto coniato un neologismo ad hoc: Laundromat, crasi fra lavaggio (laundry) e bancomat.
C’è puzza di qualcosa di grosso in arrivo, dalle parti del Cremlino. La riprova? Guardate questo grafico, il quale fa riferimento all’ultimo sondaggio compiuto da Statista e relativo alla percezione da parte dell’opinione pubblica Usa su chi sia il nemico più temibile per il Paese. Come vedete, il Venezuela non è nemmeno contemplato, John Bolton deve lavorarci ancora su. L’Iran tanto sbandierato? Poco roba, nemico da rissa al bar. L’Iraq? Praticamente uno Stato amico. La propaganda, però, ha lavorato molto bene in questi mesi, basti vedere l’andamento di Cina e Russia, il loro impennarsi nella percezione di paura e ostilità dell’americano medio.
Paradossalmente, però, Pechino con i suoi dazi e le sue tariffe che pesano sui beni di largo consumo acquistati dagli americani nei malls dovrebbe essere odiato più della Russia, la quale ufficialmente non ha fatto nulla contro gli Usa, se non reagire tit-for-tat all’abbandono statunitense del Trattato sulle armi nucleari. Eppure, Mosca stacca di oltre 10 punti Pechino nella classifica dell’ostilità. Quali messaggi staranno veicolando i media statunitensi, all’interno dell’Impero? Non pensate che questa sia guerra, senza frontiere ma con il chiaro intento di spostare la Russia verso un equilibrio di polarizzazione che la costringa all’abbraccio mortale e definitivo con la Cina, in modo da sgombrare il campo da “contaminazioni” in vista del voto del 2020? Il vecchio, caro e maccartiano “noi contro loro”, perfetto terreno di coltura in cui far rigermogliare il proverbiale orgoglio patriottico americano dei tempi di crisi?
E chi è sceso in campo accanto alla Russia in Venezuela a difesa di Maduro, mandando all’aria il bel piano di John Bolton per un golpe a tempo di record e senza praticamente colpo ferire? La Cina. E chi sta lanciando, oltre a un progetto infrastrutturale senza precedenti come la Nuova Via della Seta, anche un sistema parallelo di pagamenti internazionali in yuan e valute locali, spesso con Stati ritenuti “canaglia” come l’Iran, bypassando bellamente il dollaro? E chi ha lanciato i petroyuan per regolamentare il commercio di greggio senza scomodare i biglietti verdi? La Cina. La stessa Cina che ora è alleato nella guerra commerciale, perché primum vivere e quindi occorre puntellare il sistema prima che crolli, garantendo un alibi credibile e abbastanza allarmistico alle rispettive Banche centrali per tornare, ognuna a suo modo, in azione. Ma poi?
Lo schema è quello usato nel 1998 per rimandare di due anni lo scoppio della bolla tech, quindi il calcolo è che la recessione globale vera andrà a impattare pesantemente dopo il 2020. Di fatto, dopo il voto presidenziali Usa. Guardate questo grafico: compara l’andamento dell’indice Standard&Poor’s nel 1937 con quello attuale. Perfettamente sovrapponibile. Sicuramente è soltanto una coincidenza finanziaria, una replica assolutamente casuale e meramente statistica. Però cosa è accaduto due anni dopo il 1937? Tranquilli, qui sarà guerra, ma senza padri al fronte, bombardamenti e guerre di trincea. E nemmeno atomiche, nessuno è così idiota da distruggere il mondo che vorrebbe governare. Ma sarà guerra per decidere chi comanderà l’ordine mondiale nei prossimi 50 o 100 anni.
Nel frattempo, c’è un mondo da colonizzare day-by-day con il denaro, più che con i missili. Quanto pensate che ci vorrà prima che lo yuan diventi moneta parallela e para-ufficiale di molti Stati africani, gli stessi che Pechino sta di fatto colonizzando a colpi di investimenti e infrastrutture (altro che il franchetto di Macron)? Vi pare un caso che l’altro giorno, il numero uno del Dipartimento di Stato ed ex capo della Cia, Mike Pompeo, in visita nelle Filippine abbia apertamente minacciato la Cina di reazione militare Usa in caso le forze armate del Dragone dovessero operare azioni ostili contro mezzi di Manila nel Mare Cinese del Sud? Pompeo è stato chiaro: “Visto che il Mare della Cina del Sud è parte del Pacifico, ogni attacco armato contro forze filippine, aerei o scafi civili in quell’area farà scattare gli obblighi di mutua difesa sottoscritti all’articolo 4 del nostro Trattato”. Queste parole non le ha dette un funzionario troppo zelante o con qualche drink di troppo in corpo dopo una cena di gala, le ha proferite in un intervento ufficiale su suolo estero il Segretario di Stato statunitense.
Ora, avete capito cosa sta bollendo in pentola nel mondo, quando gli altri cominciano solo ora a porsi il problema se la cosiddetta Trumpnomics sia stata reale o solo frutto di una spesa a deficit tutta di propaganda e se la Fed davvero taglierà corto e si rimetterà in modalità da pressa, come questo grafico di fatto conferma già oggi plasticamente, a meno che non si sia ciechi o totalmente in malafede (o idioti, scegliete voi l’opzione)? Pensate davvero che gli Usa non intendano minimamente limitare la circolazione del contante, solo perché Fed e Tesoro ne ottengono un profitto dalla stampa o perché in qualche modo ostili alla lotta contro evasione fiscale e crimine organizzato? O forse il dollaro rappresenta un’arma meno sanguinaria e letale, ma assolutamente efficace quanto – e forse più – di un missile?
Paradossalmente, la ri-affermazione di un ruolo benchmark del biglietto verde passa anche dal suo utilizzo come bene rifugio al di fuori del sistema bancario-finanziario. Anzi, ancora di più, perché legittimato dall’alveo di giustizia sociale e opposizione all’establishment così in voga in tempo di populismo collettivo, quello che vorrebbe la Bce in modalità da buon samaritano che presta i soldi a banche private senza chiedere nulla in cambio. Tanto, signori, il casinò della Borsa non morirà certo per qualche centinaio di miliardi in contanti che esce da conti bancari o vincolati. Anzi. L’importante è che da Milwaukee a Kabul passando per Baghdad, quando si apre un portafoglio si scorga subito il verde del dollaro e non il rosso dello yuan.
Cari lettori, occorre già ragionare in ottica 2020, in ottica di voto per le presidenziali Usa. E occorre farlo in maniera distopica, perché ormai viviamo in quella realtà di percezione e prospettiva. Perché ormai è guerra a due, l’Europa è morta nella culla, il livello della campagna elettorale in atto per il voto di maggio e la gestione del Brexit ne sono la sconfortante ma non più ignorabile conferma. Quindi, può solo accodarsi, fare una scelta di campo. O Usa o Cina, tertium non datur. E signori, pare che la scelta sia stata fatta. E che sia ricaduta su Pechino, come rilanciava il Financial Times nella sua edizione del 6 marzo scorso con un’inchiesta che raccontava della decisione italiana di supportare ufficialmente il progetto infrastrutturale Belt and Road cinese, addirittura con la possibilità di un patto formale da siglarsi nel corso della prossima visita a Roma del presidente Xi Jinping, atteso nel nostro Paese il 22 di questo mese.
A confermare al quotidiano della City l’esistenza di un memorandum d’intenti a tal fine, il sottosegretario allo Sviluppo economico, Michele Geraci, a detta del quale la scelta sarebbe finalizzata a garantire una corsia preferenziale al “made in Italy” presso il mercato a più alto tasso di crescita e domanda al mondo. O, forse, un do ut des affinché Pechino ponga la sua implicita garanzia rispetto all’acquisto di Btp, come millantato mesi fa dal ministro Tria e garantisca investimenti diretti nel nostro Paese, di fatto una tagliola che apre la strada alla colonizzazione? Oppure ancora, una rischiosissima ripicca per il viaggio diplomatico del sottosegretario Giancarlo Giorgetti negli Stati Uniti presso le istituzioni che contano davvero, le quali si sono affrettate a rendere nota la loro preoccupazione per il freno verso le opere infrastrutturali da parte della componente grillina di governo?
Una cosa è certa, certificata dal Financial Times: sia a Bruxelles che a Washington, la questione allarma. E non poco. Tanto più che, proprio questa settimana, l’Unione europea ha adottato un framework regolatorio senza precedenti proprio rispetto agli investimenti esteri diretti, di fatto una sorta di firewall contro l’espansione economica cinese nell’eurozona, soprattutto nel campo di tecnologie chiave e strategiche. Come vedete, la scelta fra yuan e dollaro sta arrivando a toccare i gangli del sistema globale, sta abbandonando la periferia colonizzata per arrivare a coinvolgere quello che fino al 1989 era il Paese-ponte fra Ovest ed Est, fra Nato e Patto di Varsavia. L’Italia. In mano ai Di Maio del caso. Dio ci aiuti.
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