Salvo colpi di scena, nel Decreto crescita il Governo ripristinerà per intero gli incentivi fiscali del piano Industria 4.0. I risultati ottenuti dalla prima fase di sostegno alla digitalizzazione industriale – via ammortamenti maggiorati sugli acquisti di macchine utensili di ultima generazione – hanno confermato l’efficacia collaudata di un approccio di politica economica: quello che va a stimolare la volontà d’investimento delle imprese, rovesciando la logica del “sussidio”. Lo Stato non finanzia per cassa “a prescindere” o “alla cieca”, ma attende l’imprenditore a un incrocio di mercato, quello in cui decide di scommettere sull’innovazione, svecchiando il suo parco-macchine.
Ora – ha scritto Repubblica in un’anticipazione un po’ oscurata dalle schermaglie politiche su Bankitalia – il Governo starebbe preparando un pacchetto di incentivi fiscali per le fusioni bancarie. Le agevolazioni – che sarebbero allo studio sulla scrivania del nuovo Direttore generale del Tesoro Alessandro Rivera – verrebbero mirate alle medie banche in situazione di maggiore o minore difficoltà: a cominciare da Carige (commissariata in gennaio dalla Bce) per continuare con le Popolare di Bari, Puglia-Basilicata, Cividale, Valsabbina, Ragusa. Non è una novità assoluta: la grande riforma bancaria Amato-Carli del 1990 contemplava incentivi fiscali sia per gli scorpori delle banche pubbliche in Spa, sia per le prime concentrazioni (fra i beneficiari ci fu, ad esempio, l’Ambroveneto). Comunque non sorprende che il Tesoro stia proponendo alla Banca d’Italia di battere questa via: a maggior ragione dopo che la Corte di giustizia Ue ha appena bocciato l’eccessiva severità dell’Antitrust Ue nel valutare l’intervento pubblico in occasione del salvataggio Tercas (finito a Popolare di Bari).
Ma c’è un terzo fronte sul quale non è affatto imprevedibile l’ipotesi di incentivi fiscali per fusioni e ristrutturazioni: quello dell’editoria giornalistica. Lunedì scorso, l’apertura degli Stati generali convocati dal sottosegretario alla Presidenza Vito Crimi ha visto ribadite in modo netto posizioni molto distanti sul tema di forme eventuali di sostegno pubblico a un settore in forte crisi. Da un lato il presidente della Fieg, Andrea Riffeser (editore di Qn-Resto del Carlino-Nazione-Giorno), ha ribadito l’attesa di sussidi diretti: a cominciare da contributi per una nuova raffica di pensionamenti anticipati di giornalisti e poligrafici. Sulla stessa lunghezza d’onda è sembrata la Presidente dell’Inpgi, Marina Macelloni: l’ente pensionistico dei giornalisti insisterà sul cosiddetto “emendamento Durigon”, dal nome del sottosegretario leghista al Lavoro che l’aveva presentato. La misura avrebbe dirottato – per decreto – i contributi previdenziali dei giornalisti alle dipendenze degli uffici stampa (anzitutto nella Pa) dall’Inps all’Inpgi (quest’ultimo appesantito soprattutto dagli ammortizzatori sociali in essere verso i gruppi in crisi). L’ipotesi è stata stoppata proprio dalla componente pentastellata del Governo: “Il finanziamento diretto degli editori tradizionali non è un modo di affrontare la crisi dei media italiani e della professione giornalistica”, ha detto Crimi. Che è sembrato quindi sollecitare gli editori a uscire da una lunga fase di stasi, sia negli investimenti che nelle strategie.
Fusioni, ristrutturazioni, start-up digitali, nuovi capitali o ingressi di nuovi investitori: queste sono le situazioni che il Governo, prevedibilmente, potrebbe essere aperto ad aiutare. Anche con incentivi fiscali.