Dunque, volendo banalizzare e semplificare all’estremo la situazione, parrebbe che indire un secondo referendum sul Brexit configurerebbe un tradimento della volontà popolare, un vulnus imperdonabile. Invece, riproporre lo stesso accordo a Westminster finché non passa, come sembrerebbe intenzionata a fare Theresa May per la quarta volta, prendendo per i fondelli nel contempo un intero continente in nome pressoché unicamente di ricatti politici interni, rappresenterebbe un totem di democrazia, un fulgido esempio – quasi iconico – di rappresentatività. In sé, la cosa mi interessa poco e appassiona ormai ancora meno: problemi dei britannici, a loro la soluzione. Quale pagliacciata abbiano messo in campo negli ultimi tre anni e quale classe politica degna dell’indimenticato Benny Hill Show li rappresenti, è ormai palese al mondo intero.
Attenzione però al nodo del voto alle europee, il quale riguarda tutti quanti. Se per caso l’esito del voto risultasse “scomodo” a qualcuno – come pare mostrare l’ultimo sondaggio dell’Europarlamento diffuso solo venerdì scorso – ed entro il 12 aprile (ultima data utile per indire il voto per il rinnovo delle cariche a Bruxelles anche nel Regno Unito) Londra non fosse fuori, creando così un vulnus di legittimità rappresentativa che interesserebbe anche tutti gli altri 27 Paesi, il rischio di veder invalidato il voto di fine maggio potrebbe risultare non così peregrino. Addirittura comodo per qualcuno, vista la piega della situazione.
Fateci caso, cari lettori. Nonostante il quadro sia formalmente da caos senza precedenti, roba da tenuta stessa dell’Ue, non ne parla quasi nessuno, quantomeno in quei termini. I tg relegano la faccenda a quinta notizia a ridosso della siccità in pianura Padana e i mercati stanno lì, placidi e annoiati come laghi alpini. L’unica ad avere ormai il mal di mare per i continui sali-scendi è la sterlina, valuta che ormai viene trattata dai trader come la lira turca o il rand sudafricano. Per il resto, non si registrano suicidi di massa nel Tamigi. Strano, non vi pare? Il referendum in Catalogna aveva suscitato più preoccupazione diffusa, se ben ricordate. E lì, di fatto, si trattava davvero di una questione interna spagnola. Ma Bruxelles intervenne. Tardivamente ma intervenne.
Volete forse dirmi che serve il sangue, perché la questione diventi prioritaria? In effetti, Barcellona ottenne l’attenzione di Bruxelles solo dopo la criminale irruzione della Guardia Civil nei seggi elettorali. Mi auguro sinceramente di no. Anche perché giova ricordare che la fattispecie di cui stiamo parlando rappresenta materiale altamente infiammabile: qui non siamo di fronte soltanto al rischio di reazioni violente interne, di scontri fra Brexiteers e Remainers che possano trascendere in piazza, ma di un nodo gordiano storico dell’Europa. La questione irlandese, strettamente legata con il suo confine fra Eire e Ulster alla vicenda del Brexit, il cosiddetto backstop: e come vi dico da mesi, l’Ira è un cane dormiente che è meglio non svegliare. Di fatto, le alternative restano tutte sul tappeto, nonostante si stia parlando per l’ennesima volta di stuazione senza più ritorno. C’è il disperato tentativo del quarto voto a Westminster, ventilato palesemente da una Theresa May che ha ritirato in fretta e furia la sua proposta di dimissioni immediate.
C’è l’uscita senza accordo il 12 aprile, il cosiddetto no deal. C’è il secondo rinvio da richiedere al vertice europeo straordinario del 10 aprile, di fatto una prosecuzione del limbo che si ventila possa durare o fine a fine dell’anno in corso o addirittura fino alla fine del 2020. Ma questo comporterebbe la partecipazione di Londra alle elezioni europee: di fatto, la lettera scarlatta di un Brexit che, nella realtà, è stato archiviato e non avverrà mai. Quarta opzione, la più probabile al momento, uno showdown politico che porti a elezioni anticipate nel Regno Unito, di fatto il lasciapassare per un rinvio lungo quasi automatico. E questa ipotesi si enuclea anche nella prima, quella dell’eventuale quarto tentativo della May di farsi approvare l’accordo. La ragione è semplice e tutta politica. Mercoledì scorso, infatti, Westminster aveva votato gli emendamenti all’accordo riguardanti gli scenari alternativi che il Parlamento britannico poteva accettare in seno al deal con Bruxelles. Bocciate tutte e otto le opzioni. Ma solo sette furono scartate a priori e nettamente, mentre quella riguardante un’unione doganale permanente con l’Ue fu bocciata solo per una manciata di voti. Quindi, in molti a Westminster la vedono come possibile chiave per ottenere finalmente il “sì” della Camera nel quarto, disperato tentativo di via libera all’accordo che apra la strada al Brexit.
Peccato che il diavolo si annidi nei dettagli e, infatti, quella ipotesi contraddice nettamente quanto contenuto non solo nelle precedenti bozze di accordo, ma anche nel manifesto elettorale che ha portato i Conservatori al governo, proprio in nome di una gestione senza indulgenze e tentennamenti del processo di addio all’Ue. Occorrerebbe quindi un nuovo mandato politico-popolare chiaro, tanto più che molti membri del Partito dichiaratamente Brexiteers sono contrarissimi a questa ipotesi, poiché a loro modo di vedere creerebbe un ostacolo insormontabile al fatto che, d’ora in poi, Londra possa negoziare accordi commerciali in maniera autonoma e non vincolante con Bruxelles. Leggi, la via maestra del passaggio attraverso il Wto per accordi commerciali bilaterali.
Se pur di ottenere il voto favorevole del Parlamento, Theresa May dovesse accettare questo compromesso ulteriormente al ribasso per gli oltranzisti del Brexit, otterrebbe un’ulteriore e ancora più drammatica frattura interna ai Tories. E garantirebbe a calibri come Boris Johnson e Jacob Rees-Mogg materiale politico per distruggerne la leadership dall’interno. Questo è il commento alla situazione di Paul Dales, capo economista per il Regno Unito alla Capital Economics, il quale ritiene che la priorità ora sia quella di ottenere un ulteriore rinvio in sede europea: «L’Unione ha indicato la possibilità di un rinvio più lungo, forse addirittura di oltre un anno, ma questo comporterebbe che il Regno Unito partecipi al voto europeo il prossimo 23 maggio e che indichi una soluzione a medio termine per concludere il processo in atto. Se quel rinvio non sarà concesso, allora si aprono tre scenari: un addio totale al Brexit, attraverso la revoca dell’articolo 50 oppure o un’uscita no deal, senza accordo. Tutto questo deve essere per forza deciso entro il 12 aprile, entro due settimane scarse: con tutta onestà, ormai in questo Paese non sappiamo più nemmeno se la May sarà ancora prima ministro fra due giorni! Per questo, anche un’elezione generale anticipata potrebbe essere possibile. Forse, l’unico compromesso attuabile».
E stiamo parlando di uno che, per lavoro, investe sui mercati. Uno che è pagato, per citare Margin call, per capire quale musica suonerà domani, il mese prossimo e l’anno prossimo. Apparentemente, invece, naviga anche lui a vista. Alla ricerca di un apparecchio acustico. Capite da soli che, paradossalmente, un dedalo simile – con l’implicazione diretta del rischio irlandese – garantisce un’implicita assicurazione sulla vita per operazioni politica di vario genere. E ad ampio spettro. Anche in ambito europeo. Ovvero, togliamoci dalla testa che se anche la May ottenesse finalmente il via libera, quella del 12 aprile possa essere davvero la data fatidica in cui la questione Brexit troverà finalmente un epilogo. E anche la non partecipazione al voto europeo, paradossalmente, non significa nulla a livello di ineluttabilità vincolante e definitiva dell’addio di Londra all’Ue. Di converso, rappresenterebbe una via d’uscita pret-a-pòrter per l’Europa, in caso davvero i sovranisti sparigliassero le carte e portassero l’Europarlamento a una sorta di pericolosa impasse.
Io non ci credo, in realtà. Ma ormai tutto è possibile. Della serie, tutto da rifare. Perché se per caso qualcosa si ponesse ancora fra Londra e la sua uscita dall’Ue, le istituzioni che scaturiranno dal voto nasceranno con il marchio dell’illegittimità da mancata rappresentanza: finché Londra è il 28mo Stato dell’Unione, anche solo ufficialmente e formalmente, non si può prescindere. E signori, davvero pensate che entro il 12 aprile – anzi, entro il vertice europeo del 10 – si troverà il modo di chiudere la faccenda definitivamente? E, soprattutto, siete sicuri che la recessione di cui tutti oggi parlano come di uno spauracchio alle porte, non sia invece già tranquillamente entrata in casa, seduta sul divano che ci fissa, sorridendo?
Guardate questo grafico: ci mostra la performance borsistica di Infineon al DAX di Francoforte lo scorso 27 marzo. Già, mentre tutti guardavano alla Borsa tedesca solo per il titolo Deutsche Bank, vista ormai l’ufficializzazione del processo di fusione emergenziale con Commerzbank, quell’azione rappresentava invece il proxy perfetto della profondità reale e della magnitudo della recessione che stiamo vivendo. Infineon AG è infatti il leader non solo tedesco, ma a livello europeo, nel settore chiave dei semiconduttori e quel risultato da mani nei capelli è stato innescato dal taglio netto della guidance dell’azienda per l’anno in corso, con previsioni di crescita delle revenues dimezzate letteralmente, dal 9% al 5%.
A guidare il calo, i comparti Automotive e Industrial Power Control e il comunicato che ha accompagnato la notizia, parlava chiaro: «Un numero di mercati chiave continua a inviare segnali di indebolimento. In particolare, il trend in continuo calo delle vendite di veicoli in Cina nel mese di febbraio è accelerato, causando un netto aumento delle scorte da parte dei rivenditori». E auto non significa solo produttori di veicoli o semiconduttori, ma anche componentistica più basica, come le parti plastiche per i volanti o gli specchietti retrovisori o i cruscotti: un mercato in cui l’indotto italiano è enorme. Ed enormemente dipendente dalle fabbriche tedesche, per cui le nostre Pmi del comparto lavorano quasi in maniera oligopolistica. Ecco a che punto siamo, già oggi. E sapete chi altro lo ha certificato, parlando non più tardi del 28 marzo scorso a una conferenza a Parigi organizzata dalla Banque de France? Christine Lagarde, grande capo del Fmi, a detta della quale «l’eurozona non è sufficientemente resistente all’arrivo di una nuova crisi, non ha i mezzi per uscire senza traumi e conseguenze dall’emergere di tempeste economiche inaspettate. Il suo sistema bancario è sicuro ma non sicuro abbastanza».
Capito perché ieri il ministro Tria ha, di fatto, bocciato con un certo grado di allarme la nuova Commissione d’inchiesta sul sistema bancario voluta a tutti i costi dai 5 Stelle, dichiarando che chi attacca i nostri istituti di credito «mina l’interesse nazionale»?
(1- continua)