Ogni giorno ha la sua pena, dice un vecchio adagio. Si potrebbe adattarlo e dire che ogni giorno ha la sua pantomima. A poche ore dall’ennesimo annuncio del consigliere speciale per l’economia della Casa Bianca, Larry Kudlow, rispetto all’approssimarsi ormai imminente di un accordo commerciale con la Cina, ecco che – a freddo – proprio il Presidente Trump spiazza tutti, riaprendo il fronte dello scontro con l’Europa a colpi di dazi. Verrebbe da chiedersi se a Washington non si soffra a livello collettivo di disturbi bipolari, perché se realmente stai facendo di tutto per trovare un accordo con Pechino, al fine di non fornire ulteriore forza d’urto al rallentamento economico globale già in atto, come confermato ieri dal Fmi che ha certificato per il 2019 la crescita più debole da un decennio, aprire un fronte di offensiva contro il tuo principale partner commerciale appare quantomeno illogico. A meno che, come sempre, tutto questo non sottenda ad altro.
Ed è così, infatti. Per due ottime ragioni. Primo, la Casa Bianca e gli Usa in generale hanno bisogno assoluto di un peggioramento del clima economico e di fiducia sui mercati: occorre costringere la Fed a rompere le ultime resistenze e entrare in modalità espansiva ufficiale. Incidente controllato, insomma. Perché? Lo scopriremo tra poco. Secondo, occorre inviare un segnale di medio-lungo termine all’Europa in vista del voto di fine maggio: o con noi o con la Cina. Insomma, gli atteggiamenti alla Erdogan devono finire a Bruxelles. Ecco allora il durissimo attacco del Dipartimento di Stato contro il Governo tedesco, ritenuto eccessivamente incline ad accontentare tutti i desiderata russi, dopo che proprio fonti dell’esecutivo di Berlino avevano chiesto l’allontanamento dell’ambasciatore statunitense in Germania, reo di ingerenze inaccettabili. Ed ecco ora, come un fulmine a ciel sereno, i nuovi dazi statunitensi contro prodotti europei.
Per ora solo minacciati, “allo studio” come si dice in gergo ma potenzialmente letali, visto che siamo in pieno periodo pre-recessivo e con la Bce formalmente – e sottolineo, formalmente – uscita dal suo programma di Qe e sostegno diretto ai debiti pubblici e, soprattutto, corporate attraverso l’acquisto di obbligazioni private. In totale si parla di un controvalore tariffario punitivo di 11 miliardi di dollari, ma, si sa, il diavolo si annida nei particolari. Ed ecco allora che la motivazione ufficiale della ritorsione commerciale Usa risiederebbe negli aiuti pubblici europei verso Airbus, di fatto una concorrenza sleale contro la competitor statunitense Boeing. La quale, come ci racconta la cronaca, continua a precipitare non solo dai cieli, ma anche in Borsa e nei rating di credito.
Verrebbe da dire, protezionismo sleale e mascherato da parte americana. Ma c’è dell’altro, tutto politico. Chi ha appena venduto velivoli Airbus per un controvalore di 30 miliardi di euro di commessa? Emmanuel Macron durante la visita cinese di Xi Jinping di fine marzo. E da dove arrivava il presidente cinese, prima di atterrare a Parigi e fare incetta di aerei di linea? Da Roma, dove si trovava con tutti gli onori per la tre giorni che ha portato alla firma del memorandum e all’ingresso dell’Italia, primo Paese del G7 a farlo, nel progetto della Nuova Via della Seta. E cosa compare nella lista dei prodotti italiani a rischio dazi sul mercato Usa, uno dei più proficui per le esportazioni? Il prosecco, campione di export in grado di mantenerci in gara con i francesi a livello di volumi e, soprattutto, simbolo del Veneto, regione-traino del Paese. A guida leghista. E, casualmente, in questi giorni sede del Vinitaly, appuntamento enologico di richiamo ormai globale. Insomma, telecamere e riflettori puntati per l’arrivo di questo brutto e pericoloso fulmine a ciel sereno.
E poi il pecorino. Il quale, con tutto il rispetto, non rientra certo nell’immaginario collettivo come eccellenza del made in Italy nel mondo. Nessuno, onestamente, pensa a facoltosi newyorchesi che si recano sulla Quinta Strada per farne incetta, al fine di offrirlo agli ospiti in estasi per la prelibatezza recapitatagli a tavola. Non sia mai nel Wisconsin o in Iowa, dove nemmeno sanno dove siano proprio il Lazio, figuriamoci il pecorino dop. Però è stata un’eccellenza della campagna elettorale per le amministrative in Sardegna, con il vice-premier Salvini che nella disputa tra pastori e produttori ha giocato un ruolo chiave in prima persona, staccando poi un bel dividendo politico alle urne. E se adesso, sulla scorta dei timori innescati dalla minaccia Usa, quegli stessi produttori si rimangiassero non solo la promessa di conguaglio a novembre, ma anche dell’aumento a 72 centesimi al litro per il latte dei pastori sardi, vera testa d’alce che il ministro dell’Interno ha potuto appendere al muro della sua affermazione nell’Isola a spese dell’alleato grillino? Il tutto, prima delle europee. Un bel guaio.
Magari sono coincidenze, per carità. Ma un paio di questioni fanno sorgere dei dubbi. L’attenzione verso il pecorino da inserire nella “black list” tariffaria appare troppo mirata politicamente per essere stata concepita a Capitol Hill, puzza molto di suggerimento di via Veneto. Secondo, a concepire e gestire l’operazione memorandum è stato un sottosegretario leghista. E dopo la visita a John Bolton, il buon ministro Di Maio pare molto rinvigorito nella vis polemica contro l’alleato di governo, soprattutto su nervi scoperti molto specifici. Ma eccoci arrivati alla seconda ragione che spiega la scelta statunitense di attaccare l’Europa, inviando un chiaro e ulteriore segnale di instabilità sui mercati. Guardate questi due grafici, i quali ci mostrano una dinamica in atto molto chiara: il Nasdaq non è più l’Eldorado dell’investimento di Wall Street, perché dopo gli investitori istituzionali rappresentati nel primo grafico, anche la clientela retail ha monetizzato il rally post-natalizio e se ne è andata, come confermato ieri da dati ufficiali riportati da Bloomberg.
Eppure, nonostante questo esodo biblico di investitori, l’indice tecnologico statunitense sta tradando in questi giorni vicino ai suoi massimi storici, ha guadagnato oltre il 30% da Natale e nessuno a Wall Street pare preoccupato per il suo stato di salute. Ma, altresì, nessuno sa spiegarsi come sia possibile questa logica da vasi comunicanti in assenza di acqua: se tutti scappano, chi resta o entra in massa per garantire la tenuta dell’indice? In parole povere e borsistiche, chi diavolo sta comprando le mitiche Fang che da sole reggono tutta la baracca tecnologica? Siamo forse in pieno dèjà vu del 1999, prodromi dello scoppio della prima bolla tech dell’anno seguente?
Parrebbe proprio di sì e ce lo mostrano questi altri due grafici, punta di diamante dell’ultimo report di Goldman Sachs dedicato alla pratica ormai strutturale dei buybacks, ovvero il riacquisto sistematico di proprie azioni da parte delle corporations Usa. Lo studio della banca d’affari nasce da una necessità molto contingente e tutta politica. Cercando un po’ di notorietà a basso costo, essendo finito nel dimenticatoio dopo le primarie repubblicane del 2016, il senatore della Florida e strenuo oppositore di Trump, Marco Rubio, ha avanzato la proposta di tagliare gli incentivi fiscali alla pratica dei buybacks, scatenando la corsa ai defibrillatori a Wall Street. Ma anche alla Casa Bianca, ben conscia di quale sia stata la reale natura e il reale driver operativo dei rialzi record di cui il Presidente si è vantato per mesi nei suoi tweets quotidiani.
Immediatamente, la proposta di Rubio ha trovato una sponda bipartisan in un altro cercatore di facile gloria, il senatore democratico del Maryland, Chris van Hollen, il quale ha proposto l’introduzione di vincoli stringenti per i management aziendali, una volta che siano annunciati i programmi di riacquisto. Panico generalizzato. Per una ragione semplice, la quale è anche il titolo che si può dare al report di Goldman Sachs, puntualissimo nell’essere pubblicato con il dovuto allarmismo: vietare – o, comunque, limitare o depotenziare – la pratica di riacquisto di proprie azioni farebbe collassare del tutto il mercato. Il curatore dello studio, David Kostin, usa parole meno drastiche e più professionali, ma il concetto è lo stesso: «Eliminare i buybacks potrebbe immediatamente obbligare le aziende a spostare le priorità di spesa del cash corporate, impattando sui fondamentali del mercato azionario e alterando l’equilibrio di domanda e offerta per i titoli». Tradotto: se per caso le aziende la smettessero di sostenere artificialmente il mercato, ottenendo in cambio una Fed agli ordini della politica che le impone scelte monetarie espansive, il Re del mercato più manipolato della storia si presenterebbe di fatto nudo. Un po’ come il Nasdaq e il suo segreto di Pulcinella rispetto ai corsi rialzisti perenni, nonostante la fuga di massa degli investitori di ogni categoria. Persino il parco buoi, pensate voi a quale punto di raschiamento del barile siamo arrivati.
Insomma, al netto della minaccia da quattro soldi di Rubio e van Hollen, lo staff presidenziale e la comunità finanziaria sanno che il gochino sta per finire, che lo schema Ponzi di Wall Street è arrivato all’ultimo livello di pantomima: stanno finendo gli incentivi e i trucchi, stanno finendo anche gli allocchi da prendere all’amo. O torna ufficialmente e rapidamente operativa la Fed o crolla davvero tutto. E con le presidenziali del 2020 ormai in fase preliminare, questo non è accettabile. Da nessuno, Oltreoceano. Quindi, ben venga anche l’apertura di un fronte di guerra commerciale con l’Europa. Soprattutto se, in contemporanea, ti garantisce anche la possibilità di mandare un messaggio politico in vista delle europee a chi sta flirtando un po’ troppo con Russia e, soprattutto, Cina.
Il gioco si sta facendo davvero pesante. Oggi poi andranno in scena il board della Bce, anticipato al mercoledì (ancorché quasi certamente senza novità sostanziali, proprio per evitare di diventare il capro espiatorio del ritorno di panico sul mercato) e il primo giorno del vertice europeo straordinario sul Brexit. Sempre più fieno in cascina, sempre più rischio di incendio.