Dalle prime trimestrali delle società di Wall Street sono arrivati segnali molto confortanti, migliori di quelli attesi dagli analisti: venerdì, primi titoli tra i big Usa a finire sotto i riflettori, Jp Morgan, che ha annunciato di avere chiuso i primi tre mesi del 2019 con un utile record per quasi 9,2 miliardi di dollari, in aumento del 5,4%, su ricavi per 29,85 miliardi (+4,7%), e Wells Fargo, che ha battuto le stime degli esperti pubblicando una trimestrale con utili per 5,9 miliardi di dollari, in crescita dai 5,1 miliardi di dollari di utili dello stesso periodo del 2018. Le due trimestrali hanno così favorito gli acquisti sul comparto delle banche, anche quelle italiane. “JPMorgan – spiega Alessandro Magagnoli, analista tecnico e co-fondatore di Financial Trend Analysis (Ftaonline) – è tradizionalmente importante, perché quando il titolo parte al rialzo dopo la comunicazione dei dati è un ottimo segnale anticipatore per tutto il comparto finanziario, ma in generale per la Borsa. JPMorgan viene infatti considerato un “lead dog”, il capo muta sul cui andamento si modulano anche molti altri titoli”.



Tutto bene, allora, dopo i timori paventati fino a pochi giorni fa dagli analisti?

Aspettiamo. Domani usciranno con i loro report Citigroup e Goldman Sachs e martedì toccherà a Bank of America e Morgan Stanley. Le previsioni non sono ottimistiche: secondo Michael Wilson di Morgan Stanley, gli utili del primo trimestre dell’S&P 500 potrebbero evidenziare, per la prima volta dal secondo trimestre del 2015, una crescita su base annua negativa. Secondo Wilson, anche se non c’è ancora una recessione dell’economia, potrebbe esserci quest’anno una recessione degli utili, ovvero due trimestri consecutivi di utili in calo.



Un rallentamento generale è stato anticipato dal mercato obbligazionario, vero?

Sì. Anche se per il momento non si prevede una vera e propria recessione, l’inversione della curva dei tassi, con i rendimenti di breve saliti al di sopra di quelli a 10 anni, resta un indizio preoccupante per il futuro, un indizio che per il momento la Borsa ha deciso di ignorare. Del resto, i future sui Fed funds stanno iniziando a scontare un taglio di un quarto di punto nel prossimo futuro, già entro l’anno, con due ulteriori tagli nel 2020. Si tratta di un’inversione a “U” della politica monetaria della Fed rispetto a quella pubblicizzata fino alla fine dello scorso anno, che da sola giustifica la buona salute, per ora, del mercato azionario. Le Borse, tuttavia, prima o poi dovranno fare i conti con il rallentamento dell’economia: se la Fed arriverà effettivamente a tagliare i tassi, non lo farà di certo in assenza di rischio di una recessione, e questo rischio alla fine si vedrà anche negli utili aziendali.



Quali sono le previsioni sull’indice S&P 500?

Secondo Morgan Stanley, il target a fine anno dell’S&P 500 potrebbe essere di 2.750 punti e Capital Economics si spinge anche oltre, ipotizzando per la fine dell’anno uno S&P 500 a 2.300 punti. Al momento il rapporto P/E prospettico per l’indice è a 16,7 volte, al limite superiore dell’intervallo ritenuto sostenibile di 14,8-16,7 volte. Al di sopra di 16,7 volte, quindi, il mercato potrebbe diventare sopravvalutato. Se gli utili dovessero effettivamente iniziare a scendere, in media per l’intero paniere, dal momento che le quotazioni dell’indice sono già al limite della sopravvalutazione, andare a comprare su questi livelli potrebbe non rivelarsi un affare. Per questi motivi Morgan Stanley suggerisce alla clientela di spostarsi sui settori difensivi.

E il sentiment complessivo degli investitori che cosa indica?

Il sentiment registrato dall’American Association of Individual Investors è bullish al 35%, in crescita di 1,8 punti percentuali e vicino alla media storica del 38,5%, mentre il sentiment neutral è al 36,7% e quello bearish al 28,3%. Sempre a proposito di sentiment, l’indicatore di Bank of America è a 4,4, in zona neutrale, quindi per loro non è ancora arrivato il momento di vendere. C’è tuttavia un elemento di preoccupazione da tenere presente.

Quale?

Anche se gli indici statunitensi hanno fatto registrare a fine marzo il miglior trimestre da circa un decennio, un rialzo che è poi proseguito nei primi giorni di aprile, i fondi – in base ai dati forniti da Bank of America – hanno visto un’uscita di capitali pari a 39,1 miliardi di dollari.

Che cosa nasconde questo comportamento?

Vedere una Borsa in crescita e capitali in uscita dai fondi è anomalo, anche se ha dei precedenti in passato. Precedenti, come nel 2016, che però non si sono verificati a fronte di un rialzo così marcato degli indici azionari.

Come si spiega?

Una spiegazione è possibile se si tiene presente l’elevato livello di riacquisto di azioni da parte delle società quotate: secondo FactSet, le aziende dell’S&P 500 hanno ricomprato azioni per 227 miliardi nel primo trimestre del 2019, un netto incremento dai 143 miliardi del primo trimestre del 2018, acquisti che ovviamente hanno contribuito a sostenere le quotazioni anche mentre gli investitori uscivano dai fondi azionari. Nel primo trimestre del 2019 la capitalizzazione dell’S&P 500 è salita di 2.960 miliardi di dollari su base annua. Parte delle risorse in uscita dai fondi azionari sono state dirottate, per 49 miliardi di dollari circa, su fondi monetari, un chiaro sintomo di poca fiducia nelle azioni. E sono molti gli analisti che vedono in questa disparità di comportamento tra andamento dei prezzi e andamenti dei flussi relativi ai fondi una possibile fragilità del mercato azionario. Un mercato azionario che ha sviluppato tutta la recente fase di rialzo a fronte di volumi non particolarmente elevati.

Lei vede altre spie rosse accese sul cruscotto?

A conferma dell’incertezza del mercato sulla via da seguire, sul grafico del Dow Jones è comparsa una croce. Il Dow Jones ha disegnato, infatti, nella seduta del 5 aprile un “doji”, una candela giornaliera caratterizzata da valori di apertura e chiusura praticamente coincidenti che assomiglia quindi molto a una croce. Il “doji” rappresenta il punto di equilibrio di un’altalena, il momento in cui le forze che la fanno salire e quelle che la fanno scendere si equivalgono. L’equilibrio così raggiunto può essere interrotto in favore della ripresa del movimento in uno dei due sensi. Proprio come nel caso di un pendolo, dopo il punto di equilibrio, di solito il movimento riprende in direzione opposta a quello precedente. A volte, però, queste candele compaiono senza provocare danni alla tendenza in essere.

Questo cosa significa?

Come sempre, quando si studiano i grafici a candele, la comparsa di un elemento potenzialmente rialzista o ribassista è solo la prima parte dell’analisi, è poi necessaria una conferma per attivarne le implicazioni. Nel caso attuale del Dow Jones sarebbero solo discese al di sotto della base del gap del 1° aprile, a 25.950 punti circa – praticamente coincidente con il lato alto del “pennant”, figura di forma triangolare disegnata tra fine febbraio e fine marzo -, a decretare con buona probabilità il termine, almeno temporaneo, dell’uptrend.

E sotto quei livelli?

Primo supporto a 25.620 circa, media esponenziale a 50 giorni e linea di base del “pennant”; poi rischio di cali verso 25.365, primo dei ritracciamenti di Fibonacci (23,6%) del rialzo dell’ultimo trimestre. La tenuta di area 25.950 e la rottura dei 26.500 punti dovrebbero invece permettere il test di area 26.952, massimo dello scorso ottobre e resistenza critica anche in ottica di medio periodo, con target successivo a 28.200/28.300 circa.

Nel frattempo Trump ha preannunciato un nuovo scontro sui dazi con l’Europa. Che riflessi potrà avere sui mercati?

Secondo alcuni osservatori il vero pericolo per l’andamento degli indici azionari Usa non sono i risultati dei negoziati tra Stati Uniti e Cina in tema di dazi e commercio, ma l’andamento dell’economia europea. I titoli americani maggiormente esposti all’Europa nella prima parte dell’anno hanno guadagnato in media il 23% a fronte di un rialzo del 15% dell’S&P 500 e del 12% delle azioni europee con prezzi espressi in dollari. Ecco perché la minaccia di Trump di imporre 11 miliardi di nuovi dazi sulle merci europee ha destabilizzato gli indici americani.

Sta dicendo che una frenata dell’Europa danneggerebbe proprio quel basket di aziende Usa maggiormente legate al Vecchio continente che ha sovraperformato il resto del mercato in questo primo trimestre del 2019?

E’ così. Le vendite delle aziende Usa appartenenti all’S&P 500 nell’area dell’euro sono maggiori di quelle realizzate in Cina e il mercato per adesso sembra non essersene accorto. Le minacce di Trump questa volta, se messe veramente in pratica, in particolare i dazi del 25% sulle auto europee, potrebbero mettere una pietra tombale sul tentativo della zona euro di non approdare sulle secche della recessione, ma potrebbero anche ritorcersi sull’andamento degli indici azionari americani. Insomma, il classico cane che si morde la coda.

(Marco Biscella)