Gli italiani in questa settimana cominciano a fare i conti su quanto e come debbono pagare allo Stato. Bombardati da messaggi su tasse piatte, detrazioni, riduzioni, Iva, Irpef, scaglioni, aliquote, si trovano di fronte a un rompicapo senza soluzione. Alla fine dei loro calcoli, i contribuenti vedranno che la pressione fiscale sui redditi dello scorso anno non è diminuita, anzi per molti è addirittura aumentata. Eppure i due governi precedenti, cioè lo spezzone del governo Gentiloni nei primi tre mesi del 2018 e poi il governo Conte, avevano promesso il contrario. Matteo Salvini ha cavalcato la flat tax, nata in verità dentro Forza Italia, ma una volta al comando ha scelto le pensioni, introducendo sperimentalmente un’imposta del 15% soltanto sulle partire Iva sotto i 65mila euro l’anno. A Luigi Di Maio la tassa piatta non è andata mai giù e si è battuto per distribuire un reddito che non c’è a chi il lavoro non ce l’ha. I due partiti di governo hanno scelto chi è fuori dal mercato del lavoro e chi ne vuole uscire; poi non si lamentino se peggiorano sia la disoccupazione, sia il livello di occupazione, come dimostrano le cifre scritte sull’ultimo Documento di economia e finanza.
Ora Salvini, pressato dalla sua stessa base elettorale composta di imprenditori medio-piccoli, alla quale finora non ha dato nulla, rilancia la flat tax e riapre il dissenso con il M5s, un’operazione identitaria ed elettoralistica priva di realismo. Tanto è vero che dal Def è scomparso, dopo il Consiglio dei ministri, qualsiasi accenno alla tassa piatta. La ragione è molto semplice: l’imposta, che in realtà sarebbe basata su due aliquote, 15% e 25% e non su una soltanto, costa almeno 17 miliardi. Siccome bisogna trovarne 23 per scongiurare l’aumento dell’Iva l’anno prossimo, è chiaro che non ci sono le risorse, a meno di non trovarle con interventi straordinari.
Si dice che la partita verrà giocata in autunno e, per non fare del tutto la parte di Pinocchio, il Parlamento dovrebbe approvare un documento nel quale ci sia scritto chiaro e tondo che in un modo o nell’altro la flat tax si farà. Così facendo, però, vengono sconfessati il ministro dell’Economia e lo stesso presidente del Consiglio. In ogni caso, il modo in cui si farà non è ininfluente visto che il M5s vorrebbe limitare la riforma alle famiglie con meno di 50mila euro l’anno. Una cifra campata in aria: se in casa lavorano in due, la soglia appare troppo bassa, e la flat tax diventa un altro sostegno solo ai redditi inferiori, tagliando fuori quei ceti medi che Di Maio dice di voler privilegiare.
Resta aperta la questione di fondo: come trovare i fondi necessari? Allo stato attuale il dibattito politico-giornalistico gira attorno a due ipotesi: 1) aumentare le imposte indirette, almeno in parte, e tagliare un po’ di deduzioni e detrazioni, recuperando una decina di miliardi; 2) vendere pezzi di patrimonio pubblico, mobiliare e immobiliare, per 18 miliardi. Le stime sembrano eccessive, a un primo colpo d’occhio, ma lasciamo che siano gli esperti a fare i conti.
I contribuenti alle prese con le loro dichiarazioni dei redditi si fanno domande terra terra. La prima è questa: cambiando l’ordine dei fattori il risultato non è sempre lo stesso? Se da una parte aumenta l’Iva e dall’altra si riducono le aliquote, ma con meno detrazioni e deduzioni, il peso medio del fisco nel migliore dei casi rimarrà invariato. E per l’economia familiare come per quella nazionale, conta quanto resta a disposizione della gente una volta versate tutte le imposizioni di qualsiasi forma e natura. Tassa piatta o non piatta, la discussione diventa solo ideologica se l’esito finale non è pagare meno (e pagare tutti).
Proprio questo è il punto debole dell’intera politica fiscale: il Governo è partito dalla fine del processo anziché dall’inizio, cioè non si è dato un chiaro obiettivo su quale pressione fiscale vuole raggiungere. Invece, avrebbe dovuto cominciare da qui per poi discutere sugli strumenti. Come distribuire il carico è importante, ma ancor più importante è sapere a quanto ammonta questo carico. È quel che suggerisce il buon senso, prima ancora che la teoria economica. Ciò vale anche per le cosiddette privatizzazioni. Il buon senso dice che i gioielli di famiglia si vendono per ridurre i debiti. Se invece servono a finanziare le spese correnti senza aumentare i guadagni finali, ci si ritrova con meno patrimonio e meno reddito. Lo Stato può senza dubbio dismettere parte delle sue proprietà (azioni delle imprese pubbliche, palazzi, terreni, ecc.), però l’obiettivo deve essere tagliare lo stock di debito accumulato in passato senza aggiungere altro debito futuro. È un criterio essenziale, quasi intuitivo, di buona finanza privata e pubblica. Invece, il Governo vorrebbe usare le privatizzazioni per pagare la flat tax la quale non offre nessun garanzia di spingere la crescita e ridurre, per questa via, il debito.
Il rebus si fa sempre più complicato, la nebbia ancor più fitta e il buon senso intanto resta nascosto, forse per paura del senso comune come ai tempi della peste manzoniana.