“Venti contrari globali continuano a pesare sulla crescita dell’area euro”, ha sentenziato Mario Draghi, intervenendo alle Spring sessions del Fmi conclusesi a Washington sabato scorso e durante le quali il duo d’Oltralpe composto da Lagarde e Moscovici ha metaforicamente giocato a freccette con il ministro Tria, utilizzandolo come bersaglio. Probabilmente, al di là delle analisi macro, il numero uno della Bce aveva dato un’occhiata al suo vecchio interesse professionale, la finanza. Mentre il gotha economico sparava ovvietà nella capitale Usa, infatti, sul mercato le posizioni si facevano più chiare. Le scommesse al ribasso sulla moneta unica europea operate dagli hedge funds salivano ancora, altri 3.014 contratti venduti per un totale di 102.198 posizioni aperte e un controvalore di 14,3 miliardi di dollari. Per carità, non il mitologico big short dell’omonimo film, ma comunque il livello più alto di scommessa ribassista dal 2016.
Insomma, volendo ragionare in base alle vecchie logiche del buon senso economico, qualcuno sta puntando su un euro indebolito. Sintomo, di fatto, di una Bce molto più colomba di quanto già non sia e abbia promesso di essere, almeno fino a fine anno. In molti, infatti, nella comunità finanziaria fanno notare come Mario Draghi sia l’unico pezzo da novanta fra i grandi regolatori internazionali a non aver ancora pronunciato la parola recessione. Anzi, in più di un’occasione – l’ultima non più tardi del 10 aprile scorso, nella conferenza stampa seguita al board – ha negato l’ipotesi di un simile epilogo alle porte, parlando solo di un rallentamento accentuato.
Bene, se davvero chi attende l’ultimo segnale prima del grande riposizionamento di emergenza, versione finanziaria del Brace, brace! lanciato dal comandante di un aereo in avaria, ha concentrato la sua attenzione sullo scandire del fatidico vocabolo da parte del numero uno dell’Eurotower, avvisatelo che probabilmente dovrà attendere ancora un po’. Perché mentre a Washington, come al solito, si dibatteva sul nulla e gli interessati di turno sfruttavano l’occasione per ripompare la vulgata da facile capro espiatorio dell’Italia come veicolo di contagio mondiale, a 11mila chilometri di distanza qualcuno aveva silenziosamente agito. Rimandando, con ogni probabilità, il grande botto a ridosso di inizio 2020. L’anno delle presidenziali Usa, l’anno che potrebbe davvero segnare lo spartiacque dei nuovi equilibri globali.
Mentre tutti gli osservatori e analisti raccontavano al mondo che l’ottima performance dei mercati nell’ultima giornata di contrattazioni della settimana era da ricondurre ai nuovi segnali positivi nel dialogo sul commercio mondiale (come al solito, la scusa quotidiana) e sui risultati migliori delle attese delle trimestrali presentate negli Usa, la verità stava altrove. A 11mila chilometri di distanza da Washington, appunto. A Pechino. E il perché è presto detto e plasticamente rappresentato da questo grafico, dal quale si evincono due cose, immediatamente.
Primo, la sete di liquidità cinese sta per esplodere e segnalava rischio di disidratazione da liquidità mortale per il sistema, obbligazionario locale in testa. Secondo, dovendo intervenire emergenzialmente, la Cina ha deciso di farlo anche strategicamente. Ovvero, guadagnando tempo per sé e per gli altri, in modo tale da riposizionarsi e farsi trovare con la guardia altissima fra sei mesi, quando davvero i nodi arriveranno al pettine. Per gli Usa, anche politicamente. Cosa ci dicono infatti quei grafici? Che nella notte fra giovedì e venerdì scorso, è accaduto qualcosa di grosso. Molto grosso. Talmente grosso da spedire i futures dell’indice Standard&Poor’s che avrebbe aperto le contrattazioni da lì a qualche ore sopra i 2.900 punti. Di colpo.
Stando a dati ufficiali della Pboc cinese, infatti, i nuovi prestiti in yuan a marzo sono cresciuti di 1,69 triliardi, ben al di sopra degli 1,25 attesi, mentre la voce Total Social Financing – il bancomat di Stato del Dragone – è salita di 2,86 triliardi di yuan, il massimo aumento storico per il terzo mese dell’anno e ben oltre le stime di 1,85 triliardi. Di più, oltre quattro volte l’aumento di 703 miliardi di yuan registrato a febbraio. In parole povere, è ripartito in grande stile l’impulso creditizio cinese. A livello generale e su base mensile, lo stimolo iniettato nel sistema dalle autorità finanziarie cinese è stato del +11,3%.
Ma per capire bene la magnitudo dell’accaduto e le sue conseguenze, occorre sapere che il dato di marzo relativo al cosiddetto All-System Financial Aggregate è stato dell’80% superiore su base annua, mentre da inizio anno la lettura cumulativa ci parla di un +40% relativamente al medesimo periodo del 2018. Se anche Pechino decidesse di chiudere il suo finanziamento all’economia, la sua fase di politica espansiva, proprio ora, decidendo che l’iniezione di marzo è stata l’ultima del 2019, comunque sia il dato per l’anno in corso sarebbe già ora superiore del 12% rispetto a un anno fa e quasi il doppio del tasso di crescita ufficiale del Paese! E non basta ancora. A differenza del 2018, quando a partire proprio da marzo e fino a dicembre compreso il famigerato sistema bancario ombra rimase con lettura negativa, il mese scorso il sistema di finanziamento parallelo e opaco dell’economia cinese è tornato “in verde” come lettura, dopo un ultimo calo registrato a febbraio. Sintomo che, nonostante le promesse del piano quinquennale di Xi Jinping, relativamente alla compressione della bolla del credito allegro e de-regolamentato, le autorità cinesi hanno deciso di chiudere nuovamente un occhio rispetto alla creazione di sistemi creditizi paralleli a livello locale. Pessimo proxy dello stato di salute reale dell’economia, quella che non finisce nei dati ufficiali e nelle percentuali pubbliche.
Inoltre, basta guardare gli aggregati monetari per vedere che qualcosa è ripartito in grande stile. In marzo, la massa monetaria M2 è cresciuta dell’8,6% su base annua, superiore alle attese e all’8% di febbraio. Insomma, nel silenzio del grandi media e dei simposi ufficiali come quello andato in scena a Washington lo scorso fine settimana, Pechino è talmente preoccupata da aver ricominciato ad alluvionare il sistema con liquidità a pioggia. Ovunque, sia nei circuiti ufficiali che attraverso lo shadow banking. Il balzo in avanti immediato dei futures dello Standard&Poor’s alla notizia e questo grafico ribadiscono per l’ennesima volta l’unica incontrovertibile verità rispetto alla finanza globale: senza Qe strutturale e globale, crolla tutto.
Il grafico mette in comparazione tre linee importanti (la quarta rappresenta gli utili per azione, roba che non è fondamentale per il ragionamento di base): quella gialla mostra l’andamento del Surprise Index relativo ai dati macro-economici di Citi, un tracollo. Quella verde e quella blu, in coppia e appaiate come due ubriachi che si reggono a vicenda per evitare di cadere per terra, rappresentano rispettivamente l’andamento proprio dell’indice Standard&Poor’s 500 e il proxy della fornitura di liquidità globale in dollari. Serve che vi dia ulteriori spiegazioni o indulga in commenti?
Sorgono però, a questo punto, delle domande. Fondamentali, per cercare di capire l’evolvere della crisi in atto, dopo quest’ultimo, potentissimo calcio al barattolo per prendere tempo. La Cina ha abbandonato del tutto, strutturalmente, la sua volontà politica di sgonfiare la bolla da 40 triliardi di dollari della sua economia basata sul credito facile? Yu Song di Goldman Sachs pensa di no, avanzando l’ipotesi che “la politica di medio periodo si mostrerà meno espansiva e di supporto diretto dell’economia rispetto al dato di marzo. Tanto più che, al netto di quanto appena operato, al momento non si vede più la necessità impellente per tagli dei requisiti di riserva bancari o dei tassi di interesse”. E non scordiamo un piccolo particolare: questa mossa della Pboc arriva solo dopo un mese di pausa, visto che in gennaio l’iniezione di inizio anno fu addirittura di 4,6 triliardi di yuan, oltre 800 miliardi di dollari. Due mesi dopo, Pechino ha sentito il bisogno di intervenire ancora. E ancora con il badile, seppur più piccolo. Ma pur sempre badile, non una paletta per giocare con la sabbia. Vi pare un segnale positivo, un qualcosa che fa ben sperare?
I mercati azionari, certamente sì. Basti vedere la reazione di venerdì alla notizia da parte di tutti gli indici globali: Asia, Europa e poi gli Usa. Ma si sa, a detta degli esperti era merito delle trimestrali statunitensi e dell’ennesima pantomima sull’accordo commerciale ormai alle porte. È più forte di loro, non vogliono dirvi la verità. Anzi, non possono dirvela. Perché a differenza dei mercati, i quali credono volontariamente alla legge del bad news is good news, perché a loro interessa fare soldi e in fretta, voi avete una coscienza, un lavoro, una famiglia, dei progetti. E quanto sta accadendo sotto il pelo dell’acqua, dovrebbe spaventarvi a morte. E loro questo non possono permetterselo, perché smettereste di consumare, votare, credere al sistema in cui vivete, indebitarvi, fare mutui, comprare azioni e obbligazioni, automobili a rate. Non sia mai, la prima regola è non dire mai la verità. Quindi, la Cina da aprile in poi andrà in modalità contrazione, vivendo di rendita?
Non proprio. Per una ragione semplice. Anzi, due. Primo, il 1 ottobre prossimo si celebreranno i 70 anni dalla fondazione del Partito comunista cinese, quindi i mercati non dovranno mandare alcuno scossone: tutto dovrà sembrare perfetto, il Paese dovrà trasudare ottimismo e benessere da vendere all’esterno. Unicorni con gli occhi a mandorla ovunque. Secondo, visto che la crisi globale non è evitabile con le iniezioni di liquidità e che la purga andrà comunque ingoiata, meglio che a stare più male di tutti siano altri. Quindi, con ogni probabilità la politica espansiva proseguirà con minore entità e più mirata fino all’estate, salvo poi andare in letargo. A quel punto, quanto accumulato e in circolo nel sistema porterò la Cina a galleggiare in relativa tranquillità fino alla fine dell’anno, quando i veri scossoni della recessione globale non saranno più tamponabili con frangiflutti di fortuna, per quanto grandi e solidi. Ma mentre la Cina avrà il suo cuscinetto, Usa ed Europa dovranno attrezzarsi. I primi, oltretutto, con la campagna elettorale per le presidenziali del 2020 che sarà entrata nel vivo, quantomeno con le primarie.
Capito perché Donald Trump continua la sua battaglia con la Fed, nonostante questa abbia già di fatto bloccato il processo di normalizzazione monetaria? Capito perché Mario Draghi non cede al realismo, evitando di pronunciare fino all’ultimo minuto utile la parola recessione e rinviando all’analisi dei dati da qui a giugno ogni nuova decisione, come detto chiaramente in conferenza stampa la scorsa settimana? Infine, una variabile, rappresentata in questo grafico. Stando sempre a dati ufficiali cinesi relativi al mese di marzo, le riserve auree di Pechino sono salite da 60,62 milioni di once dai 60,26 del mese precedente, il quarto mese di acquisti consecutivo. Come mostra il grafico, la recente ondata di aumenti è andata a interrompere un periodo di blakcout durato formalmente 25 mesi. Uso il termine formalmente, perché la Cina ha smesso di comunicare i propri acquisti aurei nell’ottobre 2016. Poi, lo scorso dicembre, le prime 9,95 tonnellate.
A far preoccupare è il fatto che gli ultimi dati mostrano come la Pboc pare replicare il trend di acquisizioni strutturali e sistemiche del periodo che andò da metà 2015 all’ottobre 2016, appunto, quando Pechino aumentò le riserve in maniera continua, ininterrotta e costante. De-dollarizzazione in aumento? Non solo. Certo, se la Cina proseguirà di questo passo per tutto il 2019, terminerà l’anno al secondo posto dopo la Russia come compratore record di oro a livello mondiale. Un segnale chiaro verso Washington e lo status di benchmark valutario globale del biglietto verde. Ma più importante appare il fatto che, come mostrato dal grafico, l’ultima volta che il Dragone ha riattivato in questo modo i suoi acquisti di oro fisico, fu tre mesi prima della grande svalutazione dello yuan dell’agosto 2015. Prodromo di una drammatica volatilità della valuta e di accelerazione della debolezza economica del Paese, quindi dell’esportazione obbligata di deflazione. E di ovvia reazione commerciale statunitense. Attenzione alle mosse di Pechino, perché modi e tempi della prossima crisi potrebbero essere decisi proprio lì. E in classico stile cinese, in silenzio e in punta di piedi. Come accaduto venerdì scorso.