“Perché i media-élite stanno sopravvivendo nell’era del populismo”. Il Financial Times,  qualche giorno fa, festeggiava. Se per testate d’élite s’intendono quelle “prevalentemente offerte in lingua inglese ai ceti metropolitani liberalcifre alla mano stanno prosperando. Quotidiani antagonisti a Donald Trump oppure ai Brexiters – New York Times, Washington Post, Guardian, New Yorker e Atlantic – sul mercato stanno mettendo a segno record su record. 



Il Nyt – ormai quasi oltre il Mar Rosso della trasformazione digitale – ha toccato i 4 milioni di abbonati (erano 1,2 un quarto di secolo fa al picco della diffusione nell’era tradizionale e nella fase di accelerazione del turbocapitalismo a trazione clintoniana). Lo stesso Ft, nota il columnist Simon Kuper, ha festeggiato il milionesimo lettore. Il quotidiano della City – un vero digital medium 24×7 multicanale – è offerto per un anno a 60 centesimi di euro al giorno. È uno dei leader fra i grandi media in trincea a difesa della loro “identità”, sottolinea Kuper: la fiducia nel libero mercato, nella democrazia parlamentare, nel multilateralismo commerciale, nella globalizzazione finanziaria, in quel cosmopolitismo culturale che i detrattori bollano come “politicamente corretto”. 



Ft sicuramente “racconta ciò che i suoi lettori vogliono sentirsi raccontare”: ad esempio è da sempre tenacemente contro Brexit e guarda con diffidenza all’ascesa della Cina.  Ma anche i Leavers più accaniti a Londra o i tecnocrati del Dragone sono fedeli all’identità centrale e indiscutibile di Ft: ad esempio il coverage puntuale e completo – minuto per minuto nelle giornate cruciali – della Brexit-saga. Il giornale tifa per un secondo referendum anti-Brexit e ha più volte chiesto le dimissioni del premier Theresa May: ma senza gap o cedimenti minimi sull’informazione utile a formulare in ogni momento le previsioni più corrette e aggiornate sugli sbocchi di Brexit. Idem su questioni come il negoziato commerciale Usa-Cina, o regulation di Big Tech per non parlare della ricostruzione infinita della stabilità finanziaria. Qualche volta fra le righe può far capolino un’irriducibile antipatia per tutto ciò che è tedesco oppure una simpatia cameratesca per i banchieri della City. Ma è fuori discussione l’identità professionale ed editoriale che ogni giorno Ft vende con successo sul mercato globale. Ed è questo a far da baluardo all’indipendenza di un giornale-ammiraglia dell’élite, proprio nel momento di maggior pressione politica da parte dei “nuovi barbari”.



E in Italia? Certamente tutte le grandi testate quotidiane possono essere, per un verso, ricomprese nella categoria dei “media d’élite”: è netta la loro contrapposizione trasversale rispetto a una maggioranza di governo fortemente anti-élitaria. I media italiani attaccano – anche se con diversa intensità – Lega e M5s e ne vengono ricambiati. Ma le somiglianze fra Nyt e Corriere della Sera e Ft e Sole 24 Ore, ad esempio, sembrano fermarsi qui. I “media d’élite” italiani sono in profonda crisi gestionale e non paiono beneficiare della radicalizzazione dello scenario politico domestico e internazionale. Il Guardian – protagonista anzitutto di una reale svolta digitale – prospera sul mercato identitario dei Remainers britannici, in gran parte laburisti: perché Repubblica, invece, condivide con il Pd cifre in netto arretramento? Forse non è più considerato un prodotto competitivo per qualità e prezzo? Oppure l’identità proposta dai cosiddetti “media d’élite” italiani non coincide con quella dei lettori/elettori che pure si contrappongono alle forze populiste oggi al governo a Roma?

Fra Sole 24 Ore e Ft spicca un’altra differenza. Il secondo, pochi anni fa, è passato sotto il controllo di un grande editore specializzato: la giapponese Nikkei, che ha sborsato più di un miliardo di euro per acquisirlo dall’editore scolastico britannico Pearson. Il Sole è invece tuttora sotto il controllo di Confindustria: un soggetto, cioè, di per sé privo sia dell’approccio di un investitore istituzionale sia delle competenze imprenditoriali nell’editoria giornalistica. Nondimeno, proprio Confindustria e il suo quotidiano hanno manifestato, negli ultimi dieci mesi, un atteggiamento tutt’altro che “identitario”, anzi fortemente oscillante nei confronti del governo Di Maio-Salvini. Lo stesso Corriere della Sera – oggetto di un levereged buy-in da parte di un editore professionale come Urbano Cairo, sostenuto da Intesa Sanpaolo – non è sembrato puntare con decisione sull’identità politico-editoriale anti-populista: ha cercato invece di recuperare ricavi nel breve termine, azionando la leva del marketing puro, talora distanziandosi dalla proposta stretta e diretta di informazione e opinione “sul campo”. 

Mentre Ft o Nyt difendono le loro trincee identitarie con ricavi e profitti solidamente generati dall’innovazione, editori e giornalisti italiani (tutti operanti attraverso società quotate in Borsa) sono in questo periodo asserragliati in uno strano Aventino. Da un lato sono compatti nel chiedere aiuti pubblici a un Governo che sistematicamente attaccano in nome di un’identità. Ma quest’ultima (“libertà di stampa”, “democrazia”, ecc.) di fatto non viene riconosciuta dal mercato: che sembra d’altronde punire un forte deterioramento dell’offerta informativa tradizionale.  Nel frattempo – lo ha ribadito nei giorni scorsi il leader del sindacato unitario dei giornalisti, Lorusso – il mondo dell’informazione continua a rifiutare il confronto presso gli Stati Generali dell’Editoria che la Presidenza del Consiglio ha promosso come precondizione per valutare gli aiuti pubblici sollecitati dal settore. Insomma: l’esatto contrario dei giornalisti della Cnn espulsi dalla sala stampa della Casa Bianca. Che incalzano Trump con le loro domande “identitarie”, pagati dai loro lettori per porle, per riportare le risposte, per indagare sulle risposte non date.