È un mondo strano, ogni giorno di più. Campa di percezioni e incoerenza indotta, come vi dico da sempre. E vale per tutti, non solo per il grande inganno orwelliano dell’economia e della finanza, nato come ballon d’essai per saggiare le reazioni pavloviane delle opinioni pubbliche globali e funzionato così bene da trasformarsi in narrativa ufficiale. Prendete il rogo a Notre Dame, ad esempio. Di colpo abbiamo assistito a una rivalutazione di massa del Medioevo, un qualcosa che certamente farà piacere alla buonanima di Jacques Le Goff, ma che suona strano e terribilmente ipocrita in bocca e nei post sui social di chi, non più tardi di due settimane fa, utilizzava quel periodo storico come sintesi della barbarie umana per delegittimare i partecipanti al Congresso sulla famiglia di Verona e le loro idee. Insomma, meglio tardi che mai, per carità. Ogni tragedia porta con sé anche un risvolto positivo, ma temo che una massa di ignoranti ideologizzanti non cambi realmente pensiero per un po’ di legno andato a fuoco, si tratta solo di moda.
L’altro giorno occorreva, per non essere espulsi dal genere umano declinato nelle modalità di Facebook e Twitter, mostrare tutto il proprio dolore, la lacerazione della propria anima: non escluderei che la gran parte di chi ha regalato al mondo pillole di dolore degne dei Baci Perugina, dentro Notre Dame non sia mai entrato e si sia limitato a fotografie con la cattedrale sullo sfondo, passeggiando lungo la Senna. Tant’è, poco importa. Almeno a me. È il principio generale a preoccupare. Ieri mattina, ad esempio, la notizia economica catalizzante era quella del Pil cinese del primo trimestre in crescita del 6,4%, sintomo che tutto è tornato ad andare benone. Peccato che, quasi tutti, abbiano omesso di darvi tre informazioni a corredo.
Primo, quel dato è il più debole su base annua da 27 anni a questa parte, come mostra il grafico e pari a quello dell’infausto primo trimestre dell’altrettanto infausto 2009. Secondo, quel dato è platealmente drogato dalle iniezioni monstre di liquidità compiute dalla Pboc a gennaio e proprio a marzo, come vi ho confermato – buon ultimo della serie – nel mio articolo di lunedì. Terzo, il mercato – per quanto ormai di bocca buona, pur di sopravvivere – non ha affatto festeggiato quel dato. Insomma, siamo da capo. Anzi, forse siamo messi peggio. Ma è ancora presto perché il parco buoi ne prenda totalmente coscienza, deve passare l’estate.
E signori, la Cina non è affatto l’unica pietra angolare di crisi che quotidianamente ci conferma la rotta da kamikaze che un mondo traboccante debito putrescente ha imboccato, cantando fino all’altro giorno il laudario laico alla ripresa globale. Prendiamo gli Usa, ad esempio. Martedì è stato pubblicato il dato relativo alla produzione industriale, in contrazione su base mensile dello 0,1% a marzo, in linea perfetta con le aspettative. Peccato che i dati vadano letti nella loro interezza, ovvero scomponendoli settorialmente. E sapete cosa ci ha detto uno dei driver della manifattura statunitense, ovvero il comparto automotive? Che il primo trimestre di quest’anno ha visto l’attività dell’industria automobilistica Usa contrarsi del 6,9%, il peggior calo dall’ottobre 2014. Eppure, nessun giornale o telegiornale ha rilanciato la notizia, nonostante il mondo sia in regime di guerra commerciale e che quel comparto sia talmente strategico per l’America da aver aver visto Barack Obama porre in essere uno dei più mastodontici salvataggi di Stato della storia, alla faccia del liberismo selvaggio al potere Oltreoceano.
Come mai, a vostro modo di vedere? Perché la gente non va ancora spaventata. Anzi, occorre irretirla per bene proprio ora che c’è crisi in fase di lievitazione, occorre invogliarla ad acquistare l’auto nuova a rate, anche se il suo rating di credito non è certo da applausi. Altrimenti, si rompe il giocattolo. E cari lettori, il giocattolo non può rompersi. Sapete infatti, nel silenzio generale, cosa sta facendo la politica Usa, in perfetta cooperazione bipartisan al Congresso e alla faccia delle accuse di aiuto di Stato mosse all’Europa per la vicenda Airbus, con tanto di minaccia di sanzioni?
Un gruppo di senatori e deputati ha presentato un progetto di legge per l’ampliamento ad altri 400mila veicoli per produttore l’area di incentivazione da credito di imposta per le auto elettriche, di fatto un potente sussidio ulteriore per Tesla e General Motors prima che l’attuale regime di facilitazione fiscale si concluda. Il quale, di fatto, prevede la deducibilità per chi acquista auto elettriche di parte della spesa, ma che comincia a diminuire di importo, dopo 15 mesi dal raggiungimento da parte del produttore delle 200mila unità vendute sotto questo schema di incentivo: partendo da 7.500 dollari iniziali, dal 1 aprile General Motors ha visto il suo taglio ridotto a 3.750, mentre quello di Tesla ha raggiunto quel livello già dal 1 gennaio ed entro il prossimo inverno sarà sparito del tutto. Ecco allora entrare in scena il Driving America Forward Act, determinato a garantire altri 7mila dollari di credito fiscale ai produttori per altri 400mila veicoli prodotti oltre i 200mila che già hanno beneficiato degli iniziali 7.500 dollari di credito d’imposta. Un secondo e mascherato bailout del comparto automobilistico Usa, di fatto. Ma, attenzione, in nome dell’ambiente, del trasporto sostenibile e della lotta al cambiamento climatico!
Et voilà, la stessa logica patetica che sottende il Green New Deal della Ocasio-Cortez, un mega-piano di monetizzazione del debito attraverso spesa pubblica col badile, ma mascherato da lotta per il futuro dei nostri figli e dei pinguini! Greta ne sarebbe davvero fiera, farebbe la ola con le trecce! E l’Europa, il cui dato di immatricolazioni ieri ha fatto registrare a sua volta nel mese di marzo un poco rassicurante -3,6%, cosa sta facendo per reagire? Nulla a livello collettivo, anche giocando sporco (perché a volte serve, eccome se serve) e si muove in ordine sparso, uno Stato contro l’altro: suicidio annunciato.
Signori, è tutta una colossale presa per i fondelli, siamo sul Titanic, ma ci obbligano a ballare come ebeti ubriachi. Mentre loro, ovviamente, si lanciano alla conquista delle scialuppe. Volete un altro esempio? Prontissimo, anche se purtroppo vi sembrerà sempre lo stesso: non importa, fissatevelo nella mente, perché il gioco sta tutto lì. Guardate questo grafico, il quale ci dimostra plasticamente come mai il giocattolo non possa rompersi e, soprattutto, perché la guerra commerciale fra Pechino e Washington sia una colossale pagliacciata, tutta a discapito dell’Europa però. Per quanto da almeno un decennio, la vulgata del cambio di impostazione delle due principali economie del mondo vada di pari passo con il catastrofismo sul clima, la realtà macro, quella dei numeri, parla un’altra lingua: se si prende il dato scomposto del Pil mondiale del 2018, in testa alla graduatoria ci sono solo due variabili. La crescita economica cinese, la quale sappiamo sia a cosa sia dovuta in realtà (doping di Stato), sia come oggi navighi in acque agitate e i consumi statunitensi, prima voce con il 17% del totale. Se l’enorme centro commerciale a cielo aperto chiamato America non consuma – nei negozi, nei ristoranti, allo stadio per la partita, ma anche on-line su Amazon e, soprattutto, attraverso carte di credito e credito al consumo – si pianta tutto.
E, attenzione ulteriore, la seconda stampella è rappresentata dal 16% sul totale del Pil cinese, il quale però si basa su un assunto che finalmente si sta cominciando a mettere in discussione: ovvero, sono reali quei dati spacciati al mondo negli ultimi 20 anni almeno? E, soprattutto, al netto del finanziamento allegro di Stato e del sistema bancario ombra, al netto dello schema Ponzi creditizio, quanto resta di output reale e di sostegno alla crescita mondiale? Resta solo l’impulso creditizio, la liquidità creata dal debito di Stato ed elargita al mondo per mantenere in vita i casinò finanziari, chiaramente in base al do ut des di continuare a comprare le merci cinesi e, soprattutto, di non fare le pulci alla natura stessa dell’economia del Dragone.
Ecco signori, perché vi dico che siamo arrivati al redde rationem reale, quello degli equilibri che sottendono la tenuta stessa del sistema: perché come vedete, la terza voce del Pil globale non solo è a siderale distanza percentuale dalle prime due, ma si tratta del Pil del Giappone, ovvero il Paese patria dell’enorme mistificazione monetaria dell’Abenomics, il Paese della Banca centrale che compra tutto in stile sovietico, pur di non far crollare il Nikkei! E la quarta voce? Il Pil dell’odiata Germania, il quale sta patendo e non poco la guerra commerciale fra Usa e Cina. Guardate poi la quinta e la sesta voce per ordine di importanza: la spesa pubblica Usa, ovvero il deficit fuori controllo innescato da anni e reso palese da Donald Trump con la sua riforma fiscale a tutto beneficio di Wall Street (capito perché serve rendere “indispensabile” il Green New Deal della Ocasio-Cortez, altro che orsi polari che crepano dal caldo!) e il Pil britannico, vagamente a rischio di sbandamenti visto che Londra non ha ancora deciso cosa farà da grande e ha chiesto tempo fino a ottobre!
E l’ultima voce per grandezza del grafico, vogliamo parlarne? È il nostro Pil, la crescita della nostra Italietta giallo-verde del reddito di cittadinanza e di quota 100! Capito perché, piaccia o meno, siamo al redde rationem fra i due grandi player per decidere chi darà le carte nei prossimi, almeno, 50 anni abbondanti? Perché, tra l’altro, l’Europa è così stupida da non capire che la sua divisione, fomentata a ogni piè sospinto da Pechino e Washington, la ucciderà, quando invece la sua unione reale e pragmatica ci metterebbe in testa al mondo, a capotavola nella stanza dei bottoni?
Signori miei, il grande inganno ormai si sta disvelando, ogni giorno di più. Come un puzzle a cui aggiungiamo una tessera per volta e l’immagine finale comincia a prendere forma. E per l’Europa, avanti di questo passo, quella figura rischia di rivelarsi il volto di un incubo. Molto dovrà ancora succedere, attendetevi sorprese da qui all’estate. Anche sconvolgenti. La Libia tanto per ricordare che la mia messa in guardia sul tema è datata, su queste pagine, 29 agosto 2018) e l’emozione collettiva per Notre Dame sono solo l’inizio di un periodo storico che avrà pochi precedenti, tanto breve e senza nome, quanto intenso fino all’asfissia politico-sociale. E, soprattutto, avrà un solo vincitore.