Nel primo pomeriggio di mercoledì, quando Wall Street aveva da poco aperto le contrattazioni, è giunta la notizia: il Nasdaq 100 aveva raggiunto il suo record storico, 7704,773 punti. Con questo risultato, l’indice tecnologico segnava un +21,8% da inizio anno, mentre le sue aspettative di utile per azione languivano a -0,8%. Cosa c’è che non torna in questa narrazione del reale? Nulla. È il new normal. E la conferma è arrivata il giorno prima dall’ultimo sondaggio mensile di Bank of America presso i principali gestori di fondi, mia fonte inesauribile di dati e indicazioni. Questo grafico dice tutto: se infatti in cima alle preoccupazioni da tail risk di chi opera a livello professionale restano la guerra commerciale e il rallentamento cinese, ecco che una new entry ha calcato prepotentemente la ribalta al terzo posto. Ma, badate bene, schizzando subito al 17% del totale dall’assenza assoluta del mese prima: l’impotenza della politica monetaria.
È una completa capitolazione, il più clamoroso degli allarmi riguardo la nudità del Re. Il mercato, quello vero, ha sempre più paura che la situazione sfugga dal controllo delle Banche centrali. O, peggio, che la mole di criticità – in primis, almeno negli Usa e in Cina, la montagna di debito corporate non finanziario nascosto per anni sotto il tappeto del Qe – sia talmente insormontabile da non poter essere domata. Nemmeno con mezzi davvero straordinari, visto che – ad esempio in Giappone – quelli ben più che ordinari sono già stati istituzionalizzati e superati da un po’. Un esempio concreto? Pronti. Sempre mercoledì la Bank of Japan ha infatti reso noto l’aggiornamento delle proprie detenzioni di assets in seno al programma di acquisto, il mitico Abenomics.
Dunque, la Banca centrale nipponica detiene – tramite Etf – titoli azionari per un controvalore a bilancio di 28 triliardi di yen (circa 250 miliardi di dollari), pari al 4,7% della capitalizzazione del ramo principale della Borsa di Tokyo. Ma, tanto per non fare figli e figliastri fra securities, ha nel suo stato patrimoniale anche bond sovrani per un controvalore pari al 43% di tutto l’ammontare in circolazione e al 101% del Pil del Paese. Già così sembrerebbe sufficiente ma non basta, invece. Stando a calcoli dell’agenzia Nikkei, la Bank of Japan non solo è tra gli azionisti principali di 23 aziende quotate giapponesi, fra cui big come Nidec, Fanuc e Omron, ma, sempre attraverso le proprie detenzioni in Etf, è oggi fra i primi 10 azionisti del 49,7% di tutte le aziende quotate alla Borsa nipponica! L’anno scorso, quella percentuale era “solo” del 40%! Ecco il famoso ultra-liberismo che sta uccidendo il mondo e affamando i popoli. Il tutto, tornando agli Usa, con i dati macro che hanno appena toccato i valori minimi da 21 mesi.
Eppure, tutto sembra andare a meraviglia. Tutto senza scossoni. Addirittura, con il Nasdaq che sfonda il suo massimo storico. Bolla tech 2.0? Da tempo, in realtà. Ma questa volta pare anche peggio, perché non siamo solo all’isteria collettiva del parco buoi, alla logica del “ville in Florida per tutti” del Bud Fox in arrampicata libera. C’è del metodo. E del marcio strutturale. Guardate questi due grafici, ci dicono davvero tutto.
Il primo mostra come negli ultimi 12 mesi, il controvalore di titoli azionari statunitensi che sono stati scaricati da detentori esteri è stato pari a 205 miliardi di dollari, la più grande liquidazione di equities a stelle e strisce da quando viene tracciato il dato. Logica vorrebbe, in un contesto simile, che Wall Street abbia reagito negativamente a questo outflow. Eppure, a parte i due scossoni globali di ottobre e dicembre scorsi, quelli fondamentali per far cambiare registro alla Fed, un record dopo l’altro, cieli sempre blu. Esplosione del mercato interno? Parco buoi in modalità ultra-aggressiva? Liquidità delle Banche centrali che garantisce rialzi strutturali? Non solo. Qui siamo di fronte a un colossale doom loop incestuoso, roba che quello fra le nostre banche e le detenzioni di Btp viene immediatamente derubricato a scherzo del destino. Stando a calcoli di Bloomberg, infatti, le prime 10 aziende del ramo tech statunitense hanno speso in buybacks qualcosa come 169 miliardi di dollari nel 2018, un aumento – questo sì – record del 55% su base annua. E, soprattutto, prima del cambio di regime fiscale, dopo lo shock voluto dalla Casa Bianca.
Ma c’è di peggio, perché in base alle elaborazioni di TrimTabs, l’industria tecnologica nel suo insieme ha autorizzato il numero di riacquisto di proprie azioni più grande di sempre lo scorso anno, arrivando a un controvalore nominale di 387 miliardi di dollari: più del triplo del 2017. E attenzione, perché il diavolo si nasconde nei dettagli. Quando infatti Donald Trump ha firmato – tramutandolo così in legge – il Tax Cuts and Jobs Act? Negli ultimi giorni del 2017. E non a caso, ma in base a un preciso calcolo delle scadenze. Grazie a quella legislazione, fortemente voluta dalla Casa Bianca, l’aliquota della tassa per le aziende scendeva dal 35% al 21%, mentre i profitti depositati Oltreoceano potevano essere rimpatriati con un tasso di favore del 15,5%. Un bello scudo fiscale, insomma. Da centinaia di miliardi.
In teoria, quel denaro tornato a casa dai conti offshore, avrebbe dovuto terminare nell’economia reale attraverso investimenti interni, ad esempio in sviluppo e ricerca, in nuove assunzioni, in CapEx. Un vantaggio per tutti, insomma, per mostrare gratitudine rispetto al trattamento di favore garantito dalla politica e dal fisco. Ovviamente, non è andata così. E il grosso di quei miliardi sonanti e “ripuliti” a un tasso straordinariamente basso è finito, guarda caso, proprio in buybacks. I quali, si sa, garantiscono abbassamento del flottante, valutazioni alte del titolo e dividendi e bonus per manager e azionisti. Ma, soprattutto, corsi rialzisti degli indici. Qualsiasi siano le condizioni macro dell’economia. Anche a fronte, come nel nostro caso, della più grande fuga di investitori esteri da Wall Street della storia recente.
Alla fine della grande rivoluzione fiscale voluta da Donald Trump, niente più che una colossale mancia elettorale in vista delle elezioni di mid-term e un mega-favore alla comunità finanziaria newyorchese, i dati parlano chiaro: le aziende statunitensi hanno risparmiato circa il 30% di tassazione nel 2018 e, stando a quanto scritto da Bloomberg, “le aziende tech sono state fra le assolute beneficiarie del rimpatrio di capitali”. In effetti, stando a dati del fisco Usa, prima del passaggio della legge, le corporations con le più grandi detenzioni cash Oltreoceano erano Apple, Microsoft Corporation, Cisco Systems, Oracle Corporation e Alphabet. E, guarda caso, questi stessi nomi sono gli stessi a comparire ai primi posti della poco onorevole classifica delle aziende che hanno operato buybacks azionari per i controvalori maggiori. Qualcosa di senza precedenti per magnitudo di intervento sul mercato. Tanto che proprio Bloomberg conclude così la sua analisi: “Gli Stati Uniti, come sistema, hanno rinunciato a centinaia di miliardi di dollari in entrate fiscale dalle multinazionali per la promessa di un beneficio”.
Quale? Ma Wall Street che sprizza falsamente salute da tutti i pori! E sapete a spese di chi? Ce lo dice David Santschi, direttore degli studi monetari e sulle dinamiche di liquidità di TrimTabs, a detta del quale “i buybacks sono uno dei fattori trainanti dell’ineguaglianza economica negli Stati Uniti, visto che alla prova dei fatti, sono proprio gli alti dirigenti delle multinazionali a beneficiarne in maniera sproporzionata”. Ma la politica ringrazia, perché ci troviamo di fronte al più classico caso di do ut des da Prima Repubblica italiana. Peccato che ci venga spacciato come grande rivoluzione fiscale e, soprattutto, come narrativa di mercati azionari che ormai sanno macinare solo utili e record.
Ma, come vi dicevo, c’è ancora di peggio. E a dirlo è il Wall Street Journal, fonte che non appare tacciabile di atteggiamento aprioristicamente anti-americano o anti-mercatista. E cosa ci diceva il quotidiano della comunità finanziaria Usa (e globale) nella sua inchiesta seguita al caso del giornalista saudita, Jamal Khashoggi, ucciso e fatto a pezzi nel consolato del Regno a Istanbul? Facendo notare come un atteggiamento troppo duro degli Usa verso Ryad, alla ricerca della verità, avrebbe potuto scatenare la vendetta finanziaria saudita, si svelava il mistero di Pulcinella, dati alla mano: la mitica Silicon Valley, regno della rivoluzione tech americana e le sue altrettanto declamate start-ups dipendevano e dipendono enormemente dagli investimenti proprio dell’Arabia Saudita attraverso il venture capital, come clamorosamente dimostrato a inizio settimana dell’Ipo di Uber. Un bel guaio. Finanziario. Politico. Diplomatico. Ma anche di sistema, ovvero di quel sistema ipocrita che vede incarnarsi contemporaneamente negli Stati Uniti la patria delle libertà e dei diritti civili e il ricettacolo dei peggiori rapporti di partnership economico-militare al mondo.
Oltretutto, nel suo cuore pulsante, il settore tech. Lo stesso che riacquista proprie azioni in massa per ringraziare il Governo che gli taglia le tasse. Lo stesso governo che garantisce mano libera ai sauditi in patria e fuori, vedi le stragi indiscriminate di civili in Yemen, ben felice di vendergli armamenti per degli ammontare record. Ma, soprattutto, che vede Ryad di nuovo centro del mondo, dalla Siria alla Libia, dopo lo sbarco sul mercato del primo bond denominato in dollari del gigante petrolifero Aramco, sottoscritto in order book per oltre 10 volte l’ammontare in asta. Ovvero, 12 miliardi di dollari di carta con richiesta formale di oltre 100. Meglio del bond del Qatar emesso lo scorso anno, il quale ottenne domanda “solo” 4 volte e mezzo l’offerta.
Perché parlo di centro del mondo? Perché oggi, ad esempio, a Roma scenderanno in piazza migliaia e migliaia di giovani, capitanati da Greta Thunberg, per chiedere che i governi e le lobbies facciano qualcosa contro il cambiamento climatico. E, più in generale, per chiedere un cambio di paradigma del sistema economico e sociale imperante. Ma lo faranno con in tasca e nello zainetto, i frutti di quella tecnologia che ritengono – a ragione – mezzo primario della nuova comunicazione e della nuova lotta globale, non capendo che invece sono i poster-boys del sistema che dicono di voler abbattere. O, almeno, cambiare. Non esisterebbe Silicon Valley senza i soldi del petrolio saudita: niente smartphone, app, pc, tablet, notebook. Niente social network, niente tecnologie verdi, sistema integrati eco-sostenibili. Niente.
E tutto, grazie ai miliardi proveniente dall’inquinatissimo – e, spesso, sporco di sangue – greggio saudita. O libico. O iracheno. O venezuelano. O russo. Denaro che garantisce ricerca che garantisce a sua volta denaro alle multinazionali tech. Le quali lo piazzano all’estero per evitare di pagare troppe tasse, in attesa del Donald Trump di turno che, travestitosi da Giulio Tremonti, fa un bello scudo fiscale, sana ogni reato ma chiede in cambio un bell’investimento di massa in buybacks per fare contenta Wall Street e il suo coarcervo di interessi bancari-energetici-militari. Il tutto, fingendo all’atto dell’elezione del loro benefattore alla Casa Bianca, di non volerlo, perché razzista, ignorante, unilateralista, omofobo e misogeno. Mentre loro non lo sono, come mostra questo grafico finale.
Pensateci, prima di credere alla buonafede ecologista di Greta o della Ocasio-Cortez. E, soprattutto, pensateci prima di cambiare uno smartphone al mese o un tablet ogni trimestre e, contemporaneamente, lottare contro i cambiamenti climatici. Studiare è la vera rivoluzione.