Ammetto che questa volta il mio scenario ipotetico sia davvero estremo, praticamente impossibile. Lo so da solo, io stesso ci credo poco e lo ritengo un mero esercizio di stile. Ma attenzione, a volte anche prefigurare scenari solo ipotetici, tail risks o worst case scenarios, aiuta a decodificare in anticipo la realtà, seppur differente nelle sembianze finali. E, soprattutto, è un ottimo metodo per non farsi prendere in giro dalle versioni ufficiali. Ovviamente, c’è un grande punto interrogativo che grava su un epilogo senza precedenti come quello che incombe stile spada di Damocle sull’Europa: la reazione della gente, degli elettorati, dei cittadini. Sia di fronte a un risultato referendario che potrebbe tramutarsi in carta straccia, sia addirittura all’ipotesi di annullamento tout-court di un voto che riguarda tutti gli Stati membri. Verissimo. Un popolo puoi anche ammansirlo, blandirlo, irretirlo, spaventarlo. Ma 28 sono un po’ troppi. Soprattutto, in tempi di crisi economica alle porte. E con un’Unione che, di per sé, appare già divisa in blocchi di interessi e influenze contrapposte. Sicuri, quindi, che sia impossibile dar vita a un’enorme messa in scena, a una colossale rappresentazione del mito della caverna platonico, il classico gioco di ombre?
Questi grafici mettono in prospettiva la situazione globale in cui si inserisce la diatriba europea, quella che ci riguarda più direttamente. E di cui, non a caso, i media non parlano. E lo fa globalizzando il momento, aprendo al massimo il diaframma per capire come ogni singola mossa abbia conseguenze e reazioni a livello mondiale. Partiamo da un presupposto: quello appena terminato, per i mercati è stato il miglior primo trimestre da 21 anni a questa parte. Per i titoli azionari globali siamo ai massimi dal 2012, per quelli statunitensi addirittura dal 2009, così come per il petrolio. Di più, nonostante il rallentamento dell’economia, il mercato azionario cinese ha concluso i primi tre mesi dell’anno con un secco +24%, anche in questo caso miglior risultato di inizio anno dal 2009. Addirittura, la nostra piccola e vituperata Piazza Affari ha portato a casa un più che onorevole +16%, il suo miglior risultato dal 1998.
Il tutto, dopo i tonfi del periodo natalizio che avevano spaventato tutti, Fed in testa. E infatti, il primo grafico ci mostra cosa ha reso possibile questo risultato record a livello globale: l’iniezione da parte delle Banche centrali, nel medesimo arco temporale, di liquidità per quasi 1 triliardo di dollari, di cui circa 800 miliardi solo da parte della Pboc cinese a inizio anno. Di fatto, Qe in incognito. O sotto copertura, scegliete voi la formula che preferite. Insomma, la riprova che senza Banche centrali in operatività permanente crollerebbe tutto. Come a ottobre. Come a fine dicembre. Ma quella liquidità non basta, è stata assorbita come acqua in un vaso. La pianta della finanza ha sete, sempre più sete. Quindi, occorre più liquidità, più Qe. Magari stavolta istituzionalizzato, a livello ufficiale e con arco temporale lungo, magari non ben specificato nei suoi termini. Non a caso, il mercato del cambio euro/dollaro, come mostra il secondo grafico, già oggi sconta come acquisito un taglio dei tassi della Fed per quest’anno al 76,2% delle probabilità.
È un qualcosa di già prezzato nei livelli degli indici e, soprattutto, già incorporato nel trading dei multipli di utile per azione, quell’Eps che insieme ai buybacks è l’unico architrave dei rialzi garantiti dalla liquidità a pioggia: avete idea cosa accadrebbe se quella certezza monetaria venisse delusa? Magari con qualcuno che metta addirittura in giro voci di una Fed che, attorno al prossimo inverno, potrebbe tornare a rialzare, anche solo di un quarto di punto? Uno tsunami. Ed eccoci al terzo grafico, il più importante di tutti, perché mette la questione in prospettiva temporale di lungo periodo. Nel quarto trimestre dello scorso anno, la quota di mercato dello yuan all’interno delle riserve valutarie mondiali ha toccato il massimo record da quando viene tracciato il dato, mentre in contemporanea la percentuale del dollaro è scesa ai minimi dal 2013. Per carità, il biglietto verde rimane ancora sovrano ma il trend è chiaro: le Banche centrali continuano a scaricare dollari e comprare yuan. La de-dollarizzazione del mondo aumenta di velocità e non accenna a calare di magnitudo. Parliamo dello status di valuta benchmark mondiale, per il commercio come per la finanza. Ovvero, lo scettro reale che garantisce il potere e l’egemonia. Quella vera.
E non basta. Perché il dollaro comincia a perdere colpi anche in un altro contesto di fondamentale importanza, quello del sistema di pagamento globale Swift: la percentuale di quota di mercato del biglietto verde è infatti scesa al 39%, mentre quella dell’euro è salita al 35%. E nonostante i media abbiano pressoché ignorato la notizia, ricorderete come sul finire dello scorso anno la Commissione Ue diede via libera alla nascita del suo sistema di pagamenti alternativo e in euro, Instex (Instrument in Support of Trade Exchanges), come mezzo per bypassare le sanzioni statunitensi contro l’Iran e permettere alle aziende europee, tedesche e francesi in testa, di continuare il proprio business con Teheran, nonostante le minacce sempre più esplicite di Washington.
Capite ora il perché del nervosismo americano per la firma del memorandum italo-cinese, al netto delle cinque cassette di arance che il ministro Di Maio è riuscito a vendere a Pechino come unico risultato concreto a nostro favore? Insomma, il dollaro è accerchiato: da un lato lo yuan che guadagna quote a livello di riserve mondiali e acquisisce status di valuta benchmark per quanto riguarda il commercio di commodities, grazie a iniziative come i petro-yuan e gli accordi bilaterali che escludano il biglietto verde come sistema di pagamento. Dall’altro l’euro che – nonostante la politica fratricida e masochistica degli Stati membri – con il passare del tempo diviene sempre più moneta di riferimento globale, la cui solidità viene percepita come maggiore rispetto a quella della valuta statunitense.
Di fatto, un surplus di credibilità della Bce sulla Fed. Capite perché si teme che la Cina divenga acquirente del nostro debito pubblico, trasformandosi in prestatore di ultima istanza (di fatto, macchina salvavita a cui saremo attaccati) di un Paese geopoliticamente strategico e fondatore dell’Ue? Qui non c’entrano contratti più o meno miliardari, non c’entra l’idea di operare come Unione o come singolo Paese, quasi fossimo partecipanti a una gara di tutti contro tutti: qui stanno mutando gli scenari globali sotto i nostro occhi. E a un grado di velocità che appare spaventoso. Eppure, tutto sembra casuale. I giornali si occupano del congresso sulla famiglia di Verona e dei suoi ricaschi sugli equilibri di governo o delle riserve del Quirinale riguardo la nuova Commissione d’inchiesta sul sistema bancario o delle prime ammissioni del ministro Tria rispetto al rischio (direi, certezza) della crescita zero. Tutt’intorno, mutamenti che nessuno riteneva possibili in un lasso di tempo così breve. Di fatto, a partire proprio dal referendum sul Brexit, l’atto primigenio, il vero Big Bang del nuovo ordine mondiale, travestito da avanzata del sovranismo come lancia d’attacco dello scontro epocale fra popolo ed élites. A sua volta, frutto marcio della crisi del 2008. La caverna platonica, cari lettori.
A conti fatti, un risiko di simile connotato epocale non varrebbe anche il rischio insito in uno scenario estremo di invalidazione del voto europeo, tanto per creare il caos prodromico e schumpeteriano necessario? Non andrà così. Ma qualcosa, comunque sia, non torna. A vostro modo di vedere, perché il Governo tedesco, non certo in forma smagliante a livello di consenso popolare, sta operando in maniera così attiva e diretta nell’operazione di fusione fra Deutsche Bank e Commerzbank, la quale – se andrà in porto – darà vita a tagli occupazionali per oltre 30mila unità? Non teme la reazione dell’opinione pubblica, dei sondaggi, del voto alle europee? Teme molto di più la recessione in arrivo. Perché, essendo epicentro, è conscio della sua reale profondità. E si sta preparando al peggio, anche con mosse decisamente impopolari sul breve termine. E noi?
(2- fine)