Cosa vi avevo detto, in tempi non sospetti, che ci attendeva un 1992 in versione 2.0? E cosa vi avevo detto – in relazione alla pantomima del Brexit attorno al concetto di backstop sui confini con l’Eire – riguardo la pericolosità di giocare con l’armadio della Storia irlandese, rischiando di svegliarne i fantasmi che vi dormono all’interno, sempre con un occhio semi-aperto? Temo però che lo spettacolo a cui stiamo assistendo, in Italia come nel resto del mondo, sia lungi dall’essere concluso. Anzi, i titoli di testa sono appena terminati, abbiamo appena scoperto tutto il cast: ora inizia il film.
Il Russiagate? Una bufala, ora c’è la conferma ufficiale. Nel contempo, però, la Corea del Nord – casualmente – ricomincia i test missilistici. In Italia esplodono gli scandali giudiziari, come nella miglior tradizione e il Governo appare ormai a un passo dal tracollo. Giusto giusto per arrivare con il fiatone e una brutta aura, un karma molto negativo, alla europee di fine maggio. Ma vorrei farvi riflettere su altri due fronti, meno mediatici, forse, per noi italiani.
Prendete la Gran Bretagna, ad esempio, dove l’altra notte una giovane giornalista è rimasta appunto uccisa a Derry durante scontri fra polizia e manifestanti repubblicani. Terminata l’ennesima pantomima in sede europea, ottenuto il rinvio fino al 31 ottobre, cosa hanno fatto i deputati britannici? Tutti in vacanza per Pasqua, prossima seduta di Westminster il 23 aprile. Diciamo che se l’ok di Bruxelles all’ennesima sciarada avesse necessitato, anche solo formalmente e per buona creanza, di un atto di buona volontà, da Oltremanica è giunta invece una sonora pernacchia. Di più, un bel gesto delle corna in stile Vittorio Gassman ne Il sorpasso.
In compenso, ecco che è stato attivato il nuovo specchietto per le allodole per arrivare al voto europeo, il quale nel Regno Unito è formalmente fissato per il 23 maggio: Nigel Farage, l’agente provocatore per antonomasia della destabilizzazione per conto terzi, torna alla ribalta pubblica con tempismo perfetto. E, attenzione, con un consenso stellare. Nell’arco di tre giorni, infatti, sono stati altrettanti i sondaggi che hanno sancito l’ascesa parabolica del nuovo soggetto politico a tema nato in tempo reale dalle ceneri dello Ukip: uno di YouGov, uno di Opinium per il Guardian e uno di Statista per l’Independent. Cambiano gli istituti demoscopici, non il risultato: per il primo il Partito del Brexit è al 27%, per il secondo al 25% e per il terzo addirittura al 29%. Di fatto, dati ottenuti unendo le risposte che contemplino l’intenzione di voto sia per il nuovo partito di Farage che per lo Ukip.
Immediatamente, i cantori del sovranismo hanno esternato tutta la loro soddisfazione: visto, i sotterfugi e i compromessi della politica e delle élites non hanno fiaccato lo spirito indominato del popolo, lo stesso che si era espresso a favore del Leave nel referendum del 2016! Potere al popolo, rispettate la sua volontà sovrana! In attesa dell’allestimento delle ghigliottine a Trafalgar Square, vi pongo una domanda: li fate davvero così idioti i cosiddetti “poteri forti”, quelli che starebbero tramando contro il Brexit? Oppure trattasi del più classico caso di rischio calcolato, tirare la corda fino all’ultimo istante utile per ottenere ciò che vogliono davvero? Ovvero, far votare i britannici alle europee. Anche se Farage arrivasse al 30% e oltre. Anzi, meglio! Perché una volta eletti i circa 80 deputati britannici, tornare indietro sarebbe davvero un disastro. Signori, pensateci.
Lorsignori non sono riusciti – o non hanno voluto, forse – a uscire dall’Ue, nonostante il via libera del referendum e due anni di colloqui con l’Europa per trovare un accordo che mitigasse i contraccolpi. A vostro modo di vedere, riuscirebbero a trovare una soluzione all’addio post-elettorale dei 73 eletti che dovrebbero essere sostituiti quota parte fra i già ripartiti degli altri Paesi, fra i primi non eletti? E se quella sostituzione andasse a cambiare nettamente qualche equilibrio fra i gruppi, magari rendendo di colpo impossibile la formazione di uno di questi? Servono infatti sette partiti per dare vita a un gruppo a Bruxelles: non a caso, Farage – di fatto – ne porta in dote addirittura due, uno direttamente e uno per procura da fondatore. Come al solito, un ricattatore da competizione. Ma anche uno che la sa molto più lunga di quanto il suo sorriso sornione non voglia ammettere.
A chi vuole farsi beffe del risultato del referendum, della volontà popolare, del Brexit in sé e per sé, interessa solo che il 23 maggio la Gran Bretagna voti per il rinnovo delle istituzioni europee. Il resto è fuffa, non a caso lo capeggia Nigel Farage. E sapete cosa rafforza in me questa convinzione, magari fallace? Questo grafico, basato sui dati di un sondaggio sempre di YouGov e pubblicato quasi in tempo reale l’11 aprile, appena ottenuto da Londra il nuovo rinvio al 31 ottobre da parte del Vertice europeo straordinario.
Gli attenti e interessati osservatori italiani, a questo sondaggio – delle medesima fonte di quello tanto strombazzato in queste ore – hanno prestato però meno attenzione. Ed entusiasmo. E vi spiego perché, in base almeno alla mia logica di interpretazione dei fatti politici. Cosa ci dice questo sondaggio, in soldoni? Che la maggioranza dei britannici è ormai persuasa che il Brexit non accadrà entro il 31 ottobre prossimo. Lo pensava già il giorno stesso del via libera al rinvio. Ed è un qualcosa di cristallizzato in tutti gli strati dell’elettorato/cittadinanza interpellati: popolazione in generale, favorevoli all’addio e filo-europeisti. Ora, al netto dell’ipotesi di voto alle europee sempre più probabile, se questa convinzione si rivelerà giusta e suffragata dai fatti, pensate che un altro rinvio – magari fino a fine anno o al giugno 2020 – servirà davvero a raggiungere un risultato che non si è concretizzato in quasi tre anni?
Diciamo di sì e restiamo sul contingente, ovvero l’esplosione demoscopica dei duri e puri capitanati da Farage alle europee. A vostro avviso, la maggioranza di disillusi che si è detta certa che entro il 31 ottobre non accadrà il Brexit, avrà qualche problema a votare il 23 maggio? Certamente no. E se invece ce l’ha, proprio per disillusione nella politica o partito preso, comunque si asterrà, difficilmente darà vita a proteste attive contro le europee. Quindi, tutta gente che già oggi non crea problemi. Da convincere ci sono appunto i duri e puri, quelli che talmente hanno in odio l’Ue e rivendicano con tanta sacralità il risultato del referendum da preferire il salto nel vuoto del No deal al restare anche una sola settimana in più in Europa. Bene, quale miglior metodo esiste per far ingoiare a tutti il boccone – indigesto fino a non più tardi del mese scorso – del voto per il rinnovo dell’Europarlamento che sparare con la massima visibilità e diffusione sondaggi che tramutino quel voto, di fatto e in percezione, in un secondo trionfo per il Leave, incarnato nel primo posto di Farage e soci?
Detto fatto, se anche gli oltranzisti andranno in massa alle urne, anzi vorranno andarci a tutti i costi perché ingolositi dalla possibilità di vincere e ribadire il loro punto di vista, il gioco è fatto: l’importante è che il 23 maggio la Gran Bretagna voti, il resto del processo di rimozione sarà tutto in discesa. A partire dalla cortina fumogena di un più che probabile voto anticipato in autunno che catalizzi tutta l’attenzione e operi in tandem con la scadenza del 31 ottobre per garantire ai manovratori di calciare ancora un po’ in avanti il barattolo. O con un bell’acuirsi su larga scala delle tensioni in Irlanda del Nord, magari in vista delle manifestazioni orangiste di luglio: un’escalation debitamente stimolata e, magari, come avvenne con la strage di Omagh, eterodiretta di fatto. Paradossalmente, per chi vuole evitare del tutto il Brexit, più Farage e soci salgono nei sondaggi, meglio è.
E veniamo ora al secondo fronte, quello francese. Il quale, di suo, ci darà una risposta generale sull’aria che tirerà in Europa in tempi molto brevi. Paradossalmente, già oggi potremo saperne di più. Parecchio di più. Il motivo è semplice: dopo un primo appello alla sospensione delle proteste come atto di rispetto a seguito del rogo di Notre Dame, il quale ha portato anche al blocco della campagna elettorale per le europee, la parte più dura dei gilet gialli ha invece deciso che oggi sarà in piazza per il 23mo sabato di proteste. Il motivo? Di fatto, il cosiddetto pognon de dingue, la montagna di soldi, che grandi industriali e imprenditori hanno sborsato senza battere ciglio e a tempo di record per la ricostruzione della Cattedrale, oltretutto godendo anche di detrazioni fiscali che suonano a molti come beffa, oltre che danno sociale: un miliardo di euro in tre giorni.
Sui social è immediatamente montata la protesta, corredata ovviamente dal solo coté di populismo da quattro soldi che appaia immagini di Notre Dame in fiamme con bambini africani denutriti: per ricostruire la chiesa il denaro c’è – e tanto -, ma quando si tratta di mettere mano al portafoglio per dare risposte alla miseria e al disagio sociale, ogni scusa è buona.
Perché dico che la giornata di oggi può essere già molto indicativa, al netto del sondaggio di cui vi ho parlato qualche tempo fa di Les Echos che vedeva i partiti di Macron e Le Pen appaiati in testa e quello ancora da definire dei “gilet gialli” relegato alla voce “altri”? Perché essendo il movimento di protesta francese nato, germogliato e sviluppatosi sui toni estremi e sulle rivendicazioni massimaliste, quella fomentata in queste ore appare davvero ghiotta come occasione. Oltretutto, in un Paese dove la laicità è sacra e spesso e volentieri sconfina in iconoclastia di classe mal declinata. Quindi, oggi si giocano molto i leader della protesta. Primo, a livello di partecipazione, visto il continuo e costante calo delle presenze, a Parigi come nel resto del Paese, patito a partire dal sabato di violenza sugli Champs Elysées in poi. Secondo, a livello di reazione del pubblico a eventuali incidenti: psicologicamente, le fiamme di Notre Dame sono ancora negli occhi dei cittadini francesi, comunque la pensino politicamente. E rivedere altre fiamme, fossero anche quelle di molotov lanciate contro le boutique di lusso o i blindati delle gendarmeria, potrebbe scatenare un moto di repulsione emotiva e istintiva, quasi un riflesso condizionato, che si tramuterebbe con ogni probabilità nel proverbiale chiodo piantato nella bara del movimento stesso.
Terzo, attenzione ai trappoloni. Perché chi sta attorno al presidente Macron tutte queste variabili non solo le ha messe in conto, ma, probabilmente, le ha già anche prezzate a livello di consenso elettorale: quindi, se oggi la polizia sembrerà di “manica larga” nel gestire l’ordine pubblico, probabilmente è perché quei falò di violenza urbana qualcuno li cerca. E li brama. Quarto, i sondaggi parlano chiaro: nel mese di aprile, il gradimento di Emmanuel Macron è salito di 3 punti percentuali, molti dei quali attribuibili direttamente alla gestione dell’emergenza, contingente ed emotiva, del rogo di Notre Dame. Per oltre il 60% dei francesi interpellati, infatti, il Presidente “è stato all’altezza della situazione”.
Quinto, lo stesso Macron ha giocato un colpo da maestro, facendo filtrare alla stampa il fatto che nel discorso alla nazione che avrebbe dovuto tenere lunedì, rimandato invece proprio per l’incendio della Cattedrale, avrebbe annunciato l’intenzione di chiudere l’Ena (Ecole Nationale d’Administration), ovvero l’alta scuola di amministrazione pubblica che, di fatto, è la vera fucina della classe dirigente d’Oltralpe, l’élite delle élites, la scuola dove l’establishment manda i suoi rampolli a formarsi per un futuro da massimo dirigente pubblico, magari prima di un master alla London School of Economics. Lo farà davvero? Nemmeno per sogno, non si getta al macero per un po’ di consenso un’eccellenza educativa e una risorsa statale simile. Si fa solo credere che lo si farà, visto che se non fosse stato per il dramma di Notre Dame, il presidente lo avrebbe annunciato alla nazione. Davvero lo avrebbe fatto? Io ne dubito, ma nessuno ne avrà mai la conferma o la smentita assoluta. E, soprattutto, l’importante è che il cittadino/elettore lo abbia saputo dal media e ci creda, che creda alla clamorosa mossa anti-elitaria per antonomasia da parte del Presidente percepito come pietra angolare dell’establishment. Un vero capolavoro, in questo caso. Chapeau.
Insomma, i gilet gialli con il loro azzardo di scendere in piazza oggi, sono andati all-in, come si direbbe in gergo pokeristico. Sintomo, a mio avviso, della disperazione politica di chi sente di non aver quasi più nulla da perdere, quindi più propenso all’azzardo. O la va o la spacca, penso che sia stato il loro ragionamento. In quanti li seguiranno? Sono in atto esperimenti sociali ovunque, senza che ce ne accorgiamo. Sono veri e propri stress test relativi al grado di sopportazione dell’opinione pubblica, proprio come quelli delle banche. Non a caso, quando Emmanuel Macron si è visto stretto all’angolo attorno a Natale, è andato in televisione a reti unificate e ha aperto i cordoni della borsa statale a deficit. Parallelamente, però, qualcuno ha anche fatto in modo che la protesta degenerasse sempre più in deriva violenta a cadenza settimanale, compito a dire il vero facilitato dalla poca lucidità di giudizio e analisi degli stessi leader del movimento, decisamente proni alla tolleranza verso casseurs di varia estrazione.
Pensate che nel nostro Paese non sia in atto questo tipo di esperimento di massa, quasi a livello quotidiano? Ripensateci allora. E ripensate ai fatti più eclatanti dell’ultimo periodo, al loro divampare e sparire, al loro catalizzare l’attenzione generale in maniera assoluta, salvo finire a tempo di record nell’oblio del dimenticatoio collettivo, senza che si scomodassero domande al riguardo. E, soprattutto, ripensate alla loro capacità – in quel breve tempo – di oscurare tutto il resto.