La farsa del Brexit ormai è quasi completa. La scorsa notte – con mossa solitamente tipica di un Milleproroghe all’italiana, dove grazie al favore delle tenebre finisce dentro di tutto, dai condoni edilizi ai finanziamenti per la Sagra della porchetta – il Parlamento britannico ha approvato con un solo voto di scarto a favore una norma che vieta l’uscita dal’Ue senza accordo, il famigerato No deal. A questo punto, Theresa May sarà obbligata in maniera vincolante da Westminster a chiedere una nuova proroga al Consiglio europeo del 10 aprile e poi tentare la via del compromesso con i Laburisti, al fine di trovare una via d’uscita benedetta dall’Aula e che consenta l’abbandono entro il 22 maggio.



Una farsa, appunto. Non fosse altro per due motivi. Primo, si tratta di una clamorosa sconfessione del manifesto elettorale con cui i Tories sono andati al governo. Quindi, occorrerebbe ripassare dalle urne per un nuovo mandato popolare, visto che su un tema di questa importanza – la cui decisione-madre è stata presa tramite un democratico e riconosciuto referendum popolare – l’agenda dell’esecutivo è totalmente cambiata. Secondo, la palla ora passa paradossalmente nelle mani dell’Ue, la quale sarà decisore pressoché finale del destino della Gran Bretagna: roba da contrappasso dantesco. Se infatti Juncker e Barnier non fossero a loro volta dei maestri del bluff e tenessero fede alle loro promesse di linea dura, porrebbero come conditio sine qua non al nuovo rinvio la partecipazione del Regno Unito alle elezioni europee che Oltremanica dovrebbero tenersi il 23 maggio: a quel punto, sarebbe No Brexit, o tramite il ritiro governativo dell’Articolo 50 o tramite un secondo referendum.



Il problema, visto più in generale, è uno solo: quando finisce la benzina della retorica, diventa difficile far camminare la macchina della propaganda. Al riguardo, voglio fornirvi un consiglio alla lettura per il fine settimana: Tutti gli uomini del re di Robert Penn Warren (Feltrinelli). Rimarrete folgorati per la sua scrittura magistrale e per l’attualità sconcertante del tema trattato, nonostante sia stato pubblicato nel 2014, prima delle rivoluzione sovranista/populista mondiale: a volte, la letteratura vede più lontano di politologi ed economisti. E sapete perché lo dico? Perché a Londra hanno visto davvero avvicinarsi il No deal, lo hanno visto concretizzarsi e hanno dovuto fare i conti con la realtà. Impietosa.



Stando all’ultimo report di Goldman Sachs, dal giugno 2016 a oggi il risultato del referendum e la volatilità implicita che questo ha innescato sui mercati britannici (e globali) sono costati all’economia di Londra circa 600 milioni di sterline alla settimana, il 2,4% del Pil buttato nel water. Senza, di fatto, ottenere nulla. Anzi, riducendosi allo stato attuale di totale dipendenza dalla volontà di Bruxelles, oltretutto tradendo la volontà popolare, sbagliata o giusta che fosse. E questo grafico ci mostra perché l’Ue potrebbe per l’ennesima volta mostrarsi magnanima nelle sue decisioni verso l’argomento, nonostante le minacce di rito.

Il No deal, di fatto, impatterebbe anche sulle economie delle quattro principali economie europee per almeno tre anni e con drenaggi sul Pil non di poco conto: peccato che l’Europa già oggi sia in recessione tecnica, nonostante Madame Lagarde non la veda all’orizzonte, forse troppo occupata a spolverare la sua borsa Hermes. Una conferma, rapida ed efficace? Mercoledì, poco prima che Westminster facesse passare per il rotto della cuffia la norma anti-caos, i principali istituti economici tedeschi hanno tagliato con l’accetta le previsioni di crescita del Paese per quest’anno, passando dal precedente 1,9% allo 0,8%. Un colpo di machete che si è sostanziato in un bel -60%. Uno 0,2% in meno anche delle previsioni già pesantemente riviste al ribasso dal Governo di Berlino soltanto a metà gennaio. Di fatto, la potente Germania – con il suo export – non può per nulla permettersi un No deal britannico, perché tutto è accettabile tranne che ulteriori freni esogeni alla crescita.

Ma c’è dell’altro. Ovvero il fatto che, preso atto della situazione, da qualche mese la pantomima del Brexit è stata utilizzata come fertilizzante per un atto prodromico assolutamente non più derogabile: garantire a Mario Draghi tutta l’emergenzialità di cui necessita per poter ritornare in modalità Qe. Ma con l’aggravante che dovrà farlo più in fretta di quanto si pensasse, stante l’avvitamento in atto che ha già sterilizzato di fatto gli interventi “sotto copertura” di Fed e Pboc cinese. C’è però un problema: già oggi fra reinvestimento titoli, aste di rifinanziamento bancario e lungo termine, possibile taglio degli interesse sulle riserve in eccesso e tassi di riferimento bloccati per tutto il 2019, possiamo tranquillamente dire che la Bce non ha mai abbandonato davvero la modalità espansiva. Ma serve di più, appunto.

Se infatti si fosse sostanziato un No deal e il mercato avesse cominciato a inglobale e prezzare quel freno sulla crescita evidenziato dai modelli di Goldman Sachs, dove sarebbe finita l’economia dell’eurozona? E con essa, i mercati? A quel punto, Mario Draghi avrebbe dovuto intervenire subito per calmierare gli spread più sensibili agli shock esogeni, vedi il nostro. Il che significava tornare agli acquisti obbligazionari, sic et simpliciter. E poi, quali altri strumenti emergenziali ci sono nella mitologica “cassetta” più volte sbandierata dal governatore per tranquillizzare tutti? Acquisti di Etf in stile giapponese? Guardate questo grafico, il quale è contenuto nell’ultimo report di Jefferies proprio riguardo l’Ue e si basa su dati ufficiali della Bce.

Nella fattispecie, prende in esame le criticità del sistema bancario. In particolar modo, il famigerato doom loop, ovvero il rapporto incestuoso fra banche e detenzione di titoli di Stato. L’Italia, si sa, è campione assoluto da anni in questa poco onorevole disciplina. Ma, come vedete, anche la Francia sta andando alla deriva in tal senso. E non da oggi. Qualche cifra. A dicembre, quando ancora per un mese la Bce era operativa con gli acquisti di titoli pro quota, i nostri istituti di credito vollero mostrarsi belli ai mercati, vendendo un controvalore di 17 miliardi di titoli di Stato in detenzione. Come dire, siamo sani come pesci e possiamo dimostrarvelo, intervenendo sul nostro storico nervo scoperto. Bene, sapete per quale controvalore sono tornati ad acquistare debito a gennaio e febbraio, ovvero quando lo schermo anti-spread della Bce si è limitato (ed è un bel limitarsi, fidatevi) al reinvestimento della carta in detenzione e a scadenza? Per 11 miliardi a gennaio e per 7 a febbraio: di fatto, completo off-set delle vendite-spot di dicembre. Siamo da capo, altrimenti addio spread fermo in area 250-260. E attenzione, perché in gennaio e febbraio le banche francesi hanno fatto di peggio, acquistando titoli di Stato per 21 miliardi di euro. In entrambe i casi, domestici ed esteri. Immagino, statunitensi. Almeno nel nostro caso. Mentre in quello degli istituti d’Oltralpe, penso che siano molti i Btp fra i titoli acquistati, non fosse altro per gli interessi che i francesi hanno nel comparto, a partire da Generali.

Insomma, il doom loop non riguarda più soltanto noi, ma anche la seconda forza europea, mentre la prima sta disperatamente cercando di fondere due debolezze – Deutsche Bank e Commerzbank – nella speranza di farle sopravvivere, non certo per ottenere una forza. Le banche spagnole meglio nemmeno nominarle, visto che nel silenzio pressoché assoluto hanno già fatto una volta default di massa e costretto l’Ue a salvarle con 48 miliardi di soldi di tutti noi. Al netto di una situazione del genere e di una mina, quella del Brexit no deal, disinnescata all’ultimo momento ma ancora potenzialmente in grado di fare danni, se maneggiata con poca attenzione, vi pare intelligente partire con una crociata iconoclasta come quella di una Commissione d’inchiesta sulla banche con a capo Gianluigi Paragone, il cui ultimo libro si intitola Gang Bank – Il perverso intrigo fra politica e finanza che ci frega il portafoglio e la vita? Tematica interessante e decisamente non scevra di argomenti inoppignabili ma un filino fuori tempo massimo e fuori contesto, visto che se Mario Draghi da settembre riaprirà i rubinetti per il settore, significa che qualcosa di strutturale non va.

Capito perché il Quirinale è dovuto intervenire con mossa poco rituale e con pochissimi precedenti, ponendo dei paletti enormi all’azione di quell’organismo parlamentare di indagine e sottolineando come la politica non può intervenire in ambito creditizio, imponendone le scelte? Capito perché, mentre si ricordava la figura di Guido Carli, il Quirinale faceva scudo all’indipendenza di Bankitalia? Capito perché del fuoco incrociato contro il ministro Tria, proprio adesso? Capito perché appare quantomeno strano il tempismo del ritorno in campo dell’onorevole Claudio Borghi e della sua ennesima sortita senza senso, né costrutto sullo status proprietario delle riserve auree italiane?

Signori, in troppi stanno scherzando con il fuoco. E non solo in Italia, appare ormai sport diffuso nel mondo della lotta alle élites divenuta collante di governo e panacea per tutti i mali. Attenzione, però. E ve lo dice uno che in questi anni non ha lesinato bastonate allo status quo, bancario in testa. Perché non sempre le odiate élites, il vituperato establishment hanno mezzi e tempismo necessari a salvare il mondo dai danni provocati proprio dei suoi presunti e autoproclamati salvatori, magari per un eccesso di zelo genuino e senza dolo. A volte, anche Superman cede al potere della kryptonite. Volete capire qual è il vero stato di salute del mondo, in modo da avere un proxy intuitivo del pericolo che stiamo correndo e del fatto che sia meglio evitare di dar vita a rese dei conti tanto sterili quanto controproducenti? Guardate questo ultimo grafico, a mio modo di vedere da stampare e appendere in tutte le facoltà di economia del mondo: all’ingresso, nell’atrio, nelle aule, nei laboratori e persino nei bagni.

Ci mostra come, nonostante dal picco dell’inverno 2017 a oggi, le condizioni macro statunitensi siano letteralmente crollate, l’indice Standard&Poor’s 500 oggi sia sullo stesso livello di allora, in termini di punti. Come se nulla fosse accaduto. Ma se i mercati non si basano ovviamente più sui fondamentali macro, come questo grafico dimostra in maniera drammatica, cosa garantisce agli indici azionari – e quindi alla percezione pubblica e mediatica dello stato di salute dell’economia globale – quelle performance, quel decouple assoluto? La liquidità delle Banche centrali, il Qe strutturale. Senza quello, non ci sono più muri portanti. Crolla tutto. E noi facciamo una bella Commissione d’inchiesta sulle banche, in condizioni simili? E la affidiamo a chi, in assoluta buonafede, non vede l’ora di mettere tutti sul banco degli imputati, un po’ come se si fosse eletto presidente di un immaginario organismo d’indagine sui responsabili della strage di Piazza Fontana, Cornelio Rolandi. Tanto vale accendere dei petardi per festeggiare. In una miniera satura di gas, però. Attenzione, lo snodo ormai non è più alle porte. È qui. Adesso.