Nell’apprendere che oggi l’Istat fornirà nuove stime sui conti pubblici, dopo che è stato definito, d’accordo con Eurostat, un nuovo e più largo perimetro del settore pubblico, con l’inclusione di Rfi, Invitalia, Ferrovie Nord e una serie di altre unità, il pensiero non può non andare immediatamente all’appesantimento di quella “rata di mutuo” che ciascuna famiglia italiana di oggi e di domani si trova e si troverà a dover pagare a fronte del (pur leggero, si dice) aumento del debito pubblico che ne conseguirà. La detta novità viene a integrare l’interessantissima narrazione che dell’evoluzione del debito pubblico italiano dai primi del ‘900 alla fine del 2018 fa il Position Paper dello Studio European House-Ambrosetti (una sintesi è contenuta nel grafico più in basso) redatto dall’amico e collega Roberto Artoni, emerito dell’Università Bocconi.
D’altro canto chi scrive si pregia di avere, già a metà degli anni ’80, intravisto come fondamentale il problema del debito pubblico: i) innanzitutto dedicandogli il primo capitolo di un suo manuale di scienza delle finanze (Calderini editore), in controtendenza rispetto alle consuetudini editoriali vigenti che volevano il tema immancabilmente nell’ultimo capitolo del “racconto”; ii) e in secondo luogo, chiamando a discuterne in una tavola rotonda (tenutasi nell’aprile 1986 presso l’ateneo ferrarese) i colleghi Pedone, Spaventa, Vaciago, Monti e Masera (cfr. “Il debito pubblico in Italia. Cause, impatto e rimedi”, Cedam Padova, 1986).
Nel citato manuale il sottoscritto, parlando della “abnormità del debito pubblico italiano attuale” (e si era ancora al 95% del Pil!) spiegava agli studenti che “da una situazione di indebitamento che, agli inizi degli anni Settanta, era ancora “fisiologica”, l’Italia è passata, alla metà degli anni ’80, a una situazione che in termini clinici si definirebbe “patologica”, sottolineando che “già nel corso del 1986 la ‘fatidica’ soglia del 100% verrà superata” (questa descrizione, risalente a oltre 30 anni fa, non sembra combaciare con il grafico, dove il 100% risulta giungere solo verso il 1990: ma il concetto è chiaro).
Un primo indicatore dello “stato patologico” del debito italiano negli anni ’80 era già allora il costo annuo dell’indebitamento: dal 1970 in poi, il peso degli interessi sul reddito nazionale era andato crescendo in modo esponenziale, salendo a quasi il 9% già nel 1982 dall’1,7% del 1970, mentre Francia e Germania, partendo dall’1% circa, erano salite solo al 2,5-2,8%! Un secondo indicatore, non meno impressionante, della patologia era dato dal rapporto “incrementi del debito/incrementi del Pil”: nel periodo 1981-1985 gli aumenti del debito furono talmente robusti da eguagliare del tutto l’incremento del reddito nazionale (ma anche da superare di due-tre volte gli incrementi di entrate tributarie verificatisi contemporaneamente).
Gli anni cui qui si fa riferimento appartengono a un decennio “al quale – così si esprime un valente collaboratore di uno storico quotidiano italiano – oggi curiosamente si guarda con nostalgia, quasi fosse stato un momento d’oro dell’economia italiana. Gli anni ’80, quando il debito passa dal 56% del Pil del Governo di Arnaldo Forlani al 101% con cui si chiude l’ultimo Governo di Giulio Andreotti. Un raddoppio in un decennio, o poco più, fino a quando la crisi del 1992 spazza via molte illusioni”. Illusioni che però rinascono – aggiungo – solo qualche anno più tardi, nel 1996, giustificate dall’abbassamento del rapporto debito/Pil che parte in tale anno dal 116% e prosegue ininterrottamente, con solo qualche sobbalzo, fino al 2007, quando scende a meno del 100% (“regnante” il duo Prodi-Padoa Schioppa).
Il restante periodo fino a oggi è cosa nota, anch’essa diligentemente descritta nelle tabelle dello Studio Ambrosetti: una crescita continua, con balzo violento nel 2009, quando il “rapporto maledetto” debito/Pil sale dal 102% al 112% (in questo caso “regna” il duo Berlusconi-Tremonti) per poi proseguire al 123% del governo Monti, balzare al 129% dei governi Letta, e adagiarsi sulla vetta della montagna (132% del Pil) nell’anno 2018, e questo nonostante gli interessi sul debito sempre più bassi, ma proprio perché l’economia resta molto debole. Trattasi di una fonte di preoccupazione se non di angoscia per il “sistema Italia”, certo non alleggerita dai mercati finanziari, che si teme restino in attesa del peggio, magari a causa di un inaspettato aumento dei tassi di interesse…
Come uscirne? Lo scrivente non ha la presunzione di dettare ricette miracolose, ma si limita a suggerire una lettura attenta del Position Paper Ambrosetti. In esso si ritrovano molti spunti e suggerimenti per il caso italiano, impliciti ed espliciti, che non è agevole riassumere nel breve spazio concesso a questo contributo. Personalmente chi scrive è rimasto colpito dal caso del Belgio, che tra il 1993 e il 2007 era riuscito a ridurre il proprio rapporto debito/Pil di 51 punti percentuali, passando dal 138 all’87% del Pil, grazie a una pluralità di fattori, così riassumibili: i) flussi costanti di avanzi primari, pari in media al 4,7% del Pil ogni anno; ii) crescita costante del Pil (2,4% all’anno); iii) una marcata stabilità politica che, pur nel contesto di un processo di federalizzazione lungo e complesso, ha fatto da cornice rassicurante a una rigorosa disciplina fiscale; iv) un drastico ridimensionamento della spesa pubblica, passata nel quindicennio dal 56,8% del Pil al 48,2%, una riduzione, si precisa nello studio, frutto di due elementi: la costante riduzione della spesa per interessi (il sogno italiano!) e la stabilità della spesa pubblica primaria, costante per l’intero periodo.
Agli scettici sulla soluzione del caso italiano si potrebbe dire, con un occhio al caso belga: yes, you can!