È salita alla ribalta la polemica sull’oro depositato presso la Banca d’Italia. Cerco di fare chiarezza, richiamando il mio articolo dal titolo “L’euro e la spiegazione dell’impoverimento di Sud e Nord Italia”, dove tra l’altro narravo l’episodio dell’accentramento dell’oro dal Banco di Napoli alla Banca Nazionale del Regno.



Questo richiamo serve a far capire che il nobile metallo è affluito attraverso l’accentramento dell’oro dai diversi istituti di emissione alla Banca d’Italia e che gli istituti di emissione lo detenevano in deposito avendolo ricevuto dai propri clienti. In particolare, negli ex territori del Regno borbonico le monete d’oro affluivano presso i banchi meridionali, che in cambio non rilasciavano banconote, ma fedi di deposito e che a queste venivano preferite dagli stessi clienti le fedi di credito per beneficiare del servizio apodissario, rinunciando persino a farsi remunerare il deposito medesimo.



Se ragioniamo, perciò, in termini di fedi di deposito o di credito, comprendiamo benissimo che l’oro depositato non può che essere di proprietà dei depositanti. Tuttavia, l’eccessiva emissione di banconote causò il corso forzoso, impedendo ai depositanti di ritornare in possesso dei valori depositati.

Dal punto di vista giuridico, si potrebbe dire che il corso forzoso avrebbe lasciato in mano ai depositanti, in cambio dell’oro, dei foglietti colorati chiamati banconote. Ciò non toglie, però, che il corso forzoso preferì mantenere presso la Banca d’Italia il vero valore, sostituendolo con i foglietti colorati al fine precipuo di impedire che la tesaurizzazione del metallo prezioso causasse un danno all’economia, facendo cessare l’attività di scambio.



Del resto, anche se di obbligatoria accettazione, questi foglietti colorati avevano valore proprio in base al fatto che essi venivano accettati in cambio del lavoro prestato e della possibilità di scambiarli con gli altri beni. Quindi erano coloro che accettavano le banconote che conferivano alle stesse il valore rappresentato nel deposito presso la Banca d’Italia.

A riprova di quanto affermo basta rifarsi al riordino della legge bancaria dell’epoca, la quale affidava sì la custodia dell’oro alla Banca d’Italia – istituto di diritto pubblico, le cui quote di partecipazione potevano appartenere a organismi di diritto pubblico o a società per azioni di proprietà pubblica – ma la gestione dell’oro e delle altre valute convertibili in oro era affidata a un altro ente pubblico, l’Ufficio Italiano dei Cambi, che quindi gestiva per conto dei veri proprietari, cioè dei depositanti, quei valori.

Se l’oro fosse stato di proprietà della Banca d’Italia, sulla base di quale titolo doveva essere un’altra istituzione, anch’essa pubblica, a gestirne gli acquisti e le vendite?

Ricordo ancora alcuni fatti intervenuti che fortificano questa tesi. Innanzitutto, dopo la criminalizzazione del governatore Paolo Baffi, che fu costretto alle dimissioni, fu avviata in Banca d’Italia una politica tendente alla progressiva neutralizzazione della regolamentazione bancaria introdotta dalla legge bancaria del 1936. L’oro che riveniva dai depositanti non aveva alcuna evidenziazione nelle poste dello Stato patrimoniale sopra la linea, cioè nell’attivo patrimoniale dell’Istituto di emissione. Ne fu fatta progressiva evidenza con gli acquisti operati nel tempo, in cui fu avviata la dismissione delle banche di proprietà pubblica e la creazione dei gruppi bancari. Le conseguenze di tale svendita le stiamo subendo ora che ci troviamo con un sistema bancario privato di proprietà estera che ci costringe a pagare, per l’uso dei fogli colorati sopra accennati, imposte al di sopra di ogni limite di sopportazione.

Successivamente si procedette a rivalutare l’oro nel suo complesso, facendo apparire nel bilancio quello che prima era evidenziato solo sotto la linea, cioè nei conti di memoria.

Infine, fu operata la fusione tra Banca d’Italia e Ufficio Italiano dei Cambi, non consentendo più di distinguere il gestore dal depositario.

In questa commistione ritengo doveroso un intervento di riordino sulla proprietà dell’oro guidato da un senso di giustizia; doveroso sarebbe, altresì, il ripristino delle prerogative della legge bancaria, che hanno sempre consentito di salvaguardare il risparmio e il corretto esercizio del credito nella nostra bistrattata Italia, fra le quali annovero anche la salvaguardia delle banche popolari e delle banche di credito cooperativo, distrutte da una certa faciloneria nella concessione di autorizzazioni al credito che hanno arricchito di organismi fragili le uniche forme bancarie private mosse da princìpi solidaristici.