Borsa tonica, trainata dai titoli bancari e spread in ribasso. Anche un bambino, oltretutto non particolarmente intelligente, avrebbe capito che a galvanizzare i mercati erano due fattori. Primo, a breve, la speculazione su un settore – quello bancario – che viaggiava da maggio a circa il -35%, quindi un affarone per chi compra e vende non per detenzione ma per margine. Secondo, le parole del ministro Salvini proprio sugli eventuali rischi cui è esposto quel comparto strategico per l’economia del Paese, in caso andasse in difficoltà. Una chiara sconfessione non solo delle bizzarre teorie su ricapitalizzazioni alternative avanzate – ovviamente senza entrare nel merito – dal ministro Di Maio, ma anche (e, forse, soprattutto) delle accuse sempre di quest’ultimo contro Mario Draghi, definito invece dal titolare del Viminale un uomo che «ha fatto molto per l’Italia e che speriamo faccia ancora molto». Insomma, non solo il mercato festeggia il prendere atto dell’esecutivo di un problema banche, ma anche il fatto che, almeno a parole, pare pronto a intervenire, «costi quel che costi», come ha sottolineato il ministro dell’Interno.



E signori, per quanto siano storicamente una pagliacciata sesquipedale, venerdì ci sono gli stress test dell’Eba per le nostre banche, quindi un appuntamento in grado di ingolosire molti. E anche il perfetto casus belli per schiantare definitivamente le residue ritrosie propagandistiche e demagogiche dei Cinque Stelle in materia, in caso emergesse chiaramente la difficoltà di qualche istituto (due in particolare, oltre al caso a parte rappresentato da ps) e si temesse un nuovo assalto dei mercati. Punto.
Di fatto, gli investitori hanno giustamente stappato lo champagne degli acquisti alla presa d’atto di ciò di cui parlavo nel mio articolo di ieri: la progressiva ma inarrestabile e ineluttabile diluizione, fino alla prossima tappa dell’inconsistenza totale, del potere di interdizione e di veto dei 5 Stelle nella politica di governo. Di fatto, Standard&Poor’s era già ampiamente prezzata, per il semplice fatto che l’investment grade al nostro debito lo aveva confermato la settimana prima Moody’s e che, in ultima ed emergenziale istanza, la canadese Dbrs ci garantisce comunque la possibilità di acquisti da parte della Bce e, soprattutto, l’eligibilità dei Btp da parte delle banche italiane come collaterale sul mercato repo per operare swaps valutari. Insomma, la pagellina di Standard&Poor’s per i mercati valeva quanto un mio articolo: nulla. Ma, c’è dell’altro. Perché se appare ovvio che Milano sia stata “maglia rosa” dei rialzi, visto il peso del comparto bancario e le occasioni a livello di prezzo che garantisce sul breve (oltretutto, ancora senza che la Consob abbia un capo, cosa più unica che rara per un’economia avanzata di mercato nel pieno di una turbolenza finanziaria), ieri tutta Europa era bella tonica.



Cos’è, contagio positivo da Standard&Poor’s per tutti? No, questo, ovvero l’ennesima conferma – se ancora ne aveste bisogno – della mia teoria rispetto alla strategia spacca-euro che sottende la cosiddetta guerra commerciale fra Cina e Usa: il comparto automobilistico europeo, il quale a settembre ha patito un bel -23%, è andato in combinato di euforia con quello bancario italiano, dopo che proprio dalla Cina è arrivata l’indiscrezione di un taglio del 50% delle tasse sull’acquisto di automobili, straniere in testa ovviamente. Ma come, brandisci il pugno per dimostrare che non temi la concorrenza e ai primi dati macro negativi da un tuo indicatore simbolo arrivi a lanciare politiche di incentivo degne proprio del tuo “nemico” Trump? Balle. E quale sia il reale stato di salute dell’economia cinese l’ho spiegato con dovizia di particolari nel focus in due puntate della scorsa settimana.



E per finire (argomento di cui parleremo più diffusamente domani), a rendere euforici i mercati ci ha pensato ieri un altro dato: ovvero, il fatto che dopo il periodo di cosiddetto blakcout legato alla pubblicazione delle trimestrali, proprio da ieri il 48% dei titoli quotati sullo Standard&Poor’s soggetti a tale divieto regolatorio è tornato a fare ciò che riesce loro meglio. Ovvero, buybacks azionari! Insomma, il contrafforte, il muro portante del rally di Wall Street è tornato a disposizione, dopo quasi un mese di stop forzato: guarda caso, periodo durante il quale si è tenuta la sell-off sincronizzata peggiore che si ricordasse dalla grande crisi finanziaria, come ci mostra il grafico. Solo il mercato equities, nelle ultime 5 settimane, ha bruciato capitalizzazione per 8,2 triliardi di dollari! Insomma, una bella sgonfiata alla bolla, una bella purga all’indigestione da azzardo morale ed espansione dei multipli. Ma, ripeto, di questo parleremo più a fondo domani.

Insomma, la reale dinamica in atto la capirebbe anche un bambino non dotatissimo. I nostri media, per la maggior parte almeno, invece no. In testa quella neo-casamatta del populismo d’accatto che è diventata La7 con le sue trasmissioni (o pseudo tali) di informazione, roba che Barbara D’Urso assurge al ruolo di maître à penser di inarrivabile finezza di analisi, un Henry Kissinger in gonnella. Signori, non servono sketch da Bagaglino della politica, quando vivi in un Paese dove la realtà è quella rappresentata da un ministro che dice di non conoscere le carte su cui è chiamato a prendere decisioni: nessuna fiction può eguagliare questa tragicommedia un po’ kafkiana (e poi si chiedono perché sale lo spread e la gente comincia a porsi dei dubbi sull’acquisto e la detenzione del nostro debito)! Nella fattispecie, parlo del Tap, ovviamente. E sapete perché ne parlo? Perché anche lì non si vuole dire la verità.

Perché per quanto i Cinque Stelle paiano ogni giorno di più la quintessenza del dilettantismo, quasi una caricatura di se stessi, dietro a quest’ennesima politica c’è più del gioco di potere che vede la Lega al centro del progetto di depotenziamento del fenomeno grillino, fino alla sua messa in sicurezza, come si fa con le bombe disinnescate. Ci sono scambi di interessi enormi, al centro dei quali – non fosse altro per la sua posizione geografica e geostrategica – si colloca proprio il nostro Paese, testa di ponte fra Oriente e Occidente e avamposto privilegiato di controllo delle rotte nel Mediterraneo. Che il Tap si sarebbe fatto, d’altronde, si sapeva da tempo. E non solo dal tweet molto esplicito in tal senso del Dipartimento di Stato Usa dello scorso fine luglio, guarda caso a stretto giro di posta rispetto al viaggio del presidente Mattarella a Baku, ma, esattamente, dal 7 ottobre scorso. Data in cui l’amministratore delegato del gruppo Eni, Claudio Descalzi ha firmato una lettera di intenti con il suo omologo di BP, Bob Dudley e il presidente della libica National Oil Corporation (Noc), Mustafa Sanalla, nella quale si prevede che la società italiana rilevi il 42,5% dei giacimenti del gruppo inglese in Libia «con l’obiettivo di rilanciare le attività di esplorazione e sviluppo e di promuovere un ambiente favorevole agli investimenti nel Paese».

Si tratta di giacimenti sia sulla terraferma che off-shore, fermi da quasi quattro anni, che verranno ora riattivati e che vedranno Eni nel ruolo di operatore principale. BP, che aveva l’85% delle quote dei giacimenti, manterrà l’altro 42,5%, tenendo conto che il rimanente 15% è nelle mani della società libica. Nella nota ufficiale è scritto che le parti si impegnano «a contribuire allo sviluppo sociale del Paese attraverso l’attuazione di iniziative sociali, compresi programmi specifici di istruzione e formazione tecnica!. In buona sostanza, BP si appoggia a Eni (e ai rapporti che questa mantiene da decenni in Libia) per tornare in produzione, mentre il gruppo italiano rafforza la sua posizione di leader nell’area. Di fatto, una debacle per i francesi di Total, concorrenti ma anche rivali negli equilibri geopolitici della Libia. E chi fa parte integrante del consorzio Tap? BP, appunto.

I favori, oltretutto di questo livello di importanza strategica (garantire investimenti sociali in Libia, di fatto, potrebbe infatti risultare di fondamentale importanza per “stimolare” la lotta all’immigrazione clandestina del governo di Tripoli, anche in vista della prossima conferenza di Palermo) e commerciale, si ricambiano, signori miei. E da che mondo e mondo, grazie al cielo, la vera politica estera dell’Italia la fa proprio l’Eni, non la Farnesina. Solo i grillini non lo capiscono. O, forse, fanno finta di non capirlo. Ve l’ho detto e lo ripeto: siamo in una fase nuova, totalmente nuova della politica di questo Governo. Una fase già M5S-free, come di fatto testimoniano le parole fra il rassegnato e il disperato pronunciate ieri dal ministro Di Maio: «Siamo sotto attacco, chi si sfila dovrà renderne conto. Dobbiamo essere compatti come una testuggine romana, qualcuno sta dando segni di cedimento, ma non possiamo permettercelo». Di fatto, un de profundis in piena regola. Cui seguiranno, come vi ho già detto, pericolosi colpi di coda del leone ferito mortalmente, Tav in testa ma non solo.

Penso però che gli stress test di venerdì – e le conseguenze che potrebbero comportare per le scelte del Governo in materia di politica economica e rapporti con Bruxelles e Francoforte – potrebbero risultare fatali per gli stomaci di molti appartenenti all’M5S, a tutti i livelli. Molti chiederanno l’Aventino, altri imploreranno il presidente della Camera di prendere le redini del partito o il ritorno anticipato di Di Battista, altri ancora si stringeranno attorno al capo. Ma penso che molti altri non avranno voglia di morire sulla barricata degli interessi della Casaleggio Associati e cercheranno ospitalità su altri scranni, perché rinunciare a poltrone e diaria, quando ormai il Titanic sta affondando, sarebbe sintomo di stupidità e non di eroismo. Il 10 novembre, poi, la sentenza sul caso Marra potrebbe azzoppare del tutto e far concludere anticipatamente l’amministrazione grillina di Roma, il prossimo bersaglio grosso cui punta il ministro Salvini: i giochi si stanno dipanando, sempre più chiaramente.

Ma attenti al fronte estero e delle alleanze, alla vigilia delle Europee e con la Merkel ormai sempre più vicina all’addio definitivo, come ha reso noto sempre ieri: se lo spread infatti si può fermare, utilizzando un po’ di buonsenso e zittendo le voci dal sen fuggite (in questo caso non solo in casa grillina), l’errore fatale di operare da cavallo di Troia spacca-euro e spacca-Ue è invece una strada dalla quale, una volta imboccata, non c’è ritorno.