L’arresto della Direttrice finanziaria di Huawei all’aeroporto di Vancouver su mandato Usa ha fatto temere il peggio. Per qualche ora, giovedì, i listini dell’economia globale hanno tremato nel timore di un’escalation dalle conseguenze imprevedibili. Ma si è presto capito che, per nostra fortuna, i Grandi non erano intenzionati a giocare al dottor Stranamore: gli americani hanno fatto sapere che Donald Trump non era informato dell’iniziativa, Pechino ha evitato di alzare i toni.



Ma a restituire il buonumore ai listini, oltre al rimbalzo dei titoli petroliferi, è stato il cambio di rotta degli umori della Fed. Nel momento più delicato della seduta di Borsa di giovedì è stato sufficiente che sul Wall Street Journal apparisse un articolo dedicato alle prossime mosse di politica monetaria della Federal Reserve in cui si sosteneva che, d’ora in poi, le decisioni della banca centrale sarebbero state legate all’andamento della congiuntura, senza una tesi predefinita. Dalla teoria alla pratica il passo è stato breve. I dati sul mercato del lavoro segnalano che l’occupazione sale assai meno del previsto, 155 mila unità contro le 237 mila del mese precedente, mentre l’attesa era di 200 mila. E nel frattempo il salario medio orario è salito dello 0,2% (novembre su ottobre), anche qui meno delle aspettative (+0,3%). Niente stretta monetaria, dunque, obbedendo così alle richieste del presidente Trump, ma anche del Fondo monetario internazionale che aveva paventato il rischio recessione.



E così, più della conferma che si stanno esaurendo le scorte di rialzo legate alla riforma fiscale che ha messo le ali a Wall Street, sui mercati ha preso ad aleggiare un cauto ottimismo nella presunzione che la Fed torni a essere presto un’amica del rialzo, necessario per alimentare la crescita dell’economia che minaccia di spegnersi. I mercati intanto guardano già al prossimo board della Banca centrale europea. La politica espansiva del Quantitative easing, volta a immettere liquidità nei mercati, è ormai agli sgoccioli, ma dalla riunione di giovedì potrebbero emergere novità sul reinvestimento dei titoli acquistati nel programma in attesa di un nuovo prestito Tltro necessario per sostenere le banche italiane. Intanto, a completare il quadro, è arrivato l’accordo tra i produttori di petrolio con immediata ricaduta sull’aumento dei prezzi e sollievo per i produttori di shale oil, pesantemente indebitati con le banche.



Fin qui la cronaca, da cui possiamo trarre alcune indicazioni generali:

– In queste settimane, sotto la pressione dei dazi e le tensioni pre-elettorali Usa, i mercati hanno guardato al bicchiere mezzo vuoto. In realtà, però, la crescita procede ancora su binari positivi: l’inflazione è sotto controllo, l’occupazione (salvo l’Italia) pure.

– La correzione di rotta sui tassi eviterà probabilmente i guai sul fronte della liquidità. Il 19 dicembre, per giunta, la Fed presenterà l’aumento dei tassi con un linguaggio molto rassicurante e potrà perfino arrivare a rinviare tutto a gennaio oppure, in alternativa, ad annunciare una pausa nei primi mesi del 2019.

– La vera area a rischio resta l’Europa, non solo per le ambasce della manovra italiana. Pesa la crisi politica francese, al pari del collasso del Governo spagnolo. Il Regno Unito è una grande incognita. – I prossimi giorni saranno segnati da appuntamenti non particolarmente facili. Ma, per paradosso, le difficoltà dei francesi possono favorire un esito positivo del negoziato italiano, facilitato dal rientro delle tensioni sul mercato del debito che nell’ultima settimana ha premiato il porto sicuro per eccellenza, il Bund tedesco.

– Non è escluso, date le premesse, che lo spread faccia rotta verso i 250 punti. Purché il Governo dimostri di saper andare oltre i “numerini”. Come ha detto il governatore Vincenzo Visco: “Non è in discussione l’appartenenza dell’Italia all’euro. Ma i mercati non lo sanno”. È l’ora di spiegarlo.