Le conseguenze delle nostre azioni sono spesso molto ritardate nel tempo. L’imprenditore che investe nell’arricchimento professionale dei propri collaboratori ne percepisce il risultato tangibile talvolta ad anni di distanza. Lo studente di scuola superiore che oggi si impegna per aumentare il proprio capitale umano ne ottiene i benefici economici soltanto quando entrerà nel mercato del lavoro.
Spesso, tuttavia, tendiamo a sottovalutare la prospettiva di lungo periodo quando effettuiamo le nostre scelte individuali: così molti imprenditori e molti studenti, tornando agli esempi di sopra, non investono, o lo fanno in misura molto ridotta, perché non considerano i ritorni differiti nel tempo. La tendenza di molti a focalizzarsi eccessivamente sul breve periodo nell’assumere decisioni, salvo poi sistematicamente pentirsene in un momento successivo, è ampiamente documentata in psicologia e in economia, e prende il nome tecnico di present bias, che potremmo tradurre in italiano come stimolo del momento. Si tratta di un atteggiamento diffuso, con conseguenze ovviamente molto rilevanti nell’organizzazione dell’economia e della società.
A maggior ragione, ci è molto difficile assumere un’ottica di lungo termine quando valutiamo politiche che incidono sul bilancio pubblico. Molti elettori preferiscono interventi finanziati a debito, siano essi di aumento di spesa o di riduzione fiscale, per i quali il costo viene posticipato al futuro. Il present bias in questo caso è facilmente spiegabile se pensiamo che i costi dell’aumento di debito, oltre che differiti nel tempo, sono spesso anche poco visibili agli occhi degli elettori.
Prendiamo un intervento di aumento di spesa in un determinato settore, ad esempio quello sanitario. Questo può essere finanziato sostanzialmente con tre modalità alternative. Primo, con una riduzione di pari entità della spesa in altri comparti: ad esempio, con una riduzione della spesa nel settore educativo. Secondo, con un aumento della pressione fiscale. Terzo, con un aumento del deficit. Nei primi due casi, il costo implicito dell’aumento di spesa è visibile: i cittadini tendenzialmente si accorgono di riduzioni di spesa in altri settori (a meno che vadano a colpire spese inutili o a beneficio di pochi: ma sappiamo che ridurre questo tipo di spese, per quanto auspicabile, non è facile) o di aumenti della pressione fiscale. Nel caso, invece, di aumento del deficit, e quindi di accumulazione di debito, il costo viene rinviato al futuro, e dunque, nell’immediato, esso è in genere molto poco evidente.
Questa preferenza degli elettori si è riflessa, ad esempio, nelle politiche di bilancio del nostro Paese, dove la tendenza a spendere troppo, e a debito, è sempre stata particolarmente accentuata. In particolare, a partire dagli anni Ottanta, anche a seguito del “divorzio” fra Tesoro e Banca d’Italia, si è passati da un rapporto debito/Pil del 56% del 1980, al livello di 121% del 1994. In quel periodo, sono state promulgate norme, con il consenso traversale delle diverse forze politiche, che avrebbero comportato forti disequilibri al bilancio pubblico, con conseguenze gravi, ma lontane nel tempo. Un esempio ben rappresentativo sono le baby pensioni, promulgate nel 1973 dal governo Rumor con l’appoggio bipartisan sia dei partiti di maggioranza che di quelli di opposizione del tempo.
Alla classe politica è ben noto che la preferenza degli elettori per le politiche che aumentano il debito mal si concilia con scelte politiche lungimiranti: la leva del debito infatti dovrebbe essere usata con grande cautela, e soltanto per affrontare crisi temporanee particolarmente acute, quali i periodi di recessione, ben circoscritti nel tempo.
“Sappiamo tutti che cosa si dovrebbe fare, ciò che non sappiamo è come essere rieletti dopo averlo fatto”. Questa dichiarazione dell’allora Primo ministro lussemburghese, e attuale Presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, è in linea con l’evidenza empirica che mostra come i governi che spendono molto, e a debito, vengano rieletti più facilmente di quelli che spendono meno, o comunque non a debito. Solo quando i costi dell’aumento del debito diventano espliciti e ben visibili, gli elettori si rendono conto che la spesa a debito potrebbe non essere una buona idea.
Sotto quali condizioni i costi del debito diventano espliciti e visibili? Quando i mercati finanziari, nei quali si determinano i tassi di rendimento sul debito pubblico, cominciano a preoccuparsi del rischio che il debito non venga più restituito. In questa situazione, che l’Italia, insieme ad altri Paesi indebitati, sta vivendo tuttora, il costo del debito, sotto forma di rendimento dei titoli di Stato, diventa molto più correlato alle misure di politica economica: i mercati reagiscono a misure che comportano un ulteriore aumento del debito con un immediato aumento dei rendimenti, che è una cattiva notizia per chi già detiene titoli di Stato, che vede il loro valore ridursi. Ma più in generale è una cattiva notizia per tutti i contribuenti, perché il più alto costo del finanziamento del debito genera altro debito, che prima o poi dovrà essere coperto, mediante nuove tasse o minor spesa pubblica.
Forse paradossalmente, sono dunque proprio i mercati finanziari che, lungi dall’escogitare complotti ai danni di alcuni Paesi e a favore di altri, segnalano invece l’urgenza di mantenere il debito pubblico sotto controllo, e forniscono ai politici l’appiglio per la realizzazione di riforme altrimenti impopolari. Un’ampia letteratura economica conferma che gli aggiustamenti strutturali e i tagli alla spesa pubblica si realizzano prevalentemente nei momenti di crisi.
Una delle poche notizie positive dell’attraversare un periodo di crisi è proprio questa: che, come confermato da un’ampia letteratura economica, si tratta di momenti propizi per realizzare aggiustamenti strutturali e tagli alla spesa pubblica. Gli interventi di bilancio realizzati lo scorso anno sono andati nella direzione opposta, determinando un aumento del debito. Sarebbe auspicabile che, nella prossima legge finanziaria, i politici cogliessero l’opportunità della visibilità degli alti costi del debito per invertire la rotta e operare interventi di stabilizzazione del bilancio ormai non più procrastinabili.