Aristotele, nella sua Poetica, definisce la tragedia greca come “l’imitazione di un’azione seria e conclusa, dotata di grandezza”; un’imitazione che, “attraverso compassione e paura” conduce in definitiva alla catarsi, ossia al superamento delle passioni medesime. È a questa definizione che ho pensato quando ho udito i discorsi della cancelliera Merkel e del presidente della Commissione europea Juncker sulle vicende greche. Discorsi dai toni diversi, ma sempre armonicamente sulla stessa tonalità. Cosicché ci si era sbagliati a essere così fanaticamente rigidi nel fare pagare alla Grecia tutti i costi dell’austerità tecnocratica! Essa l’ha di fatto dissanguata lasciandola spogliata e impoverita delle sue risorse più preziose, svendute a prezzi di saldo alle potenze creditrici che non si sono fatte remore di far la parte dell’acquirente non benevolo, dell’acquirente minaccioso, che, mentre fissa le regole, fa sì ch’esse siano le più favorevoli al dominatore.
Ci si potrebbe esaltare nell’aver avuto ragione (chi scrive e questo quotidiano), ci si potrebbe compiacere per aver detto il contrario del pensiero dominante, in tempi difficili, quando tutti esaltavano l’ordoliberismo e una politica tanto sbagliata teoricamente, quanto dannosa praticamente. Ci si potrebbe compiacere per aver detto le stesse parole che di fatto i due citati protagonisti della vita europea oggi con voce contrita pronunciano. Ma il problema non è questo: il narcisismo non conduce a nulla.
Non vogliamo pensare che questo ammettere di aver sbagliato sia l’effetto delle prossime prove elettorali che si svolgeranno simultaneamente in tutte le nazioni europee per eleggere quel nuovo Parlamento europeo che si presenterà, dopo il voto, certamente diverso rispetto all’attuale. Un Parlamento che non ha e che non avrà, di fatto, potere alcuno se non di interdizione, rispetto ai governi che nominano i Commissari, in una sorta di rappresentanza in seconda istanza e alla tecnocrazia invisibile ma potentissima, che emana direttive l’una sull’altra costruite in un segreto formarsi di un potere così lontano dai popoli da far dimenticare della sua stessa esistenza. Ed è del resto ciò che si vuole.
Veramente, come avrebbe detto Gianfranco Miglio, gli “arcana imperii” ci dominano, come s’intitolava una sua indimenticabile collana su cui le menti meno conformiste si sono formate a una scienza della politica ormai dimenticata, nel dilagare della superficialità e della sguaiata chiassata conformista, tanto fastidiosa quanto l’altrettanto chiassosa protesta demagogica che non comprende che rinegoziare le regole vuol dire conoscerle, dominarle, trasformarle attraverso un lavorio paziente e continuo. È la pazienza la vera virtù dei rivoluzionari e la tragedia europea non finisce mai di insegnarci questa sempiterna verità. Certo la tragedia si è compiuta, ma la catarsi deve ancora prodursi.
È tuttavia importante che nuove scene e nuovi attori appaiano sul palcoscenico europeo. Dalla lamentazione occorre ora passare alla riformulazione delle politiche economiche che quella tragedia hanno prodotto. Si avvicina una recessione di lungo periodo. Viene da lontano, certamente: in primis dalla Cina, che rimane solo una bomba demografica anziché produttiva. Ma viene anche da vicino: dall’Europa, che si sta dilacerando politicamente in una disgregazione sociale inedita per via della deflazione secolare che la mancanza di investimenti ha prodotto proprio a partire dalla Germania e dalle nazioni del Nord, dalla Lega Anseatica e dalla marca svedese, con i venti freddi di una gelata che sembra non aprirsi mai alla primavera. Un gelo che coglie anche governi come quello italiano, che sembrano ora ritrovare il coraggio della rinegoziazione delle regole europee per non essere anch’essi trascinati, come l’Italia tutta, giù per le valli gelide della recessione.
Occorre alzare le dighe degli investimenti produttivi con l’azione delle imprese pubbliche e private. Puntare sulla crescita vuol dire puntare sugli investimenti. È solo il profitto, capitalistico o cooperativo ch’esso sia, a creare lavoro e con il lavoro la ricostruzione della società. Una società di cui vi è sempre più disperatamente bisogno. È questa la catarsi che attendiamo. Non ci basta aver avuto ragione. Occorre cambiare profondamente la politica economica europea.
Le notizie, invece, che si affollano sempre più sulla necessità di far fronte alle inevitabili conseguenze che un’eventuale uscita del Regno Unito potrebbe avere sull’Unione europea non colgono affatto l’urgenza di questo cambiamento di rotta. Per comprendere la gravità di questa regressione culturale dobbiamo ritornare con la mente a un contesto non solo economico ma anche internazionale che un tempo era profondamente diverso da quello odierno perché non aveva irrigidito i sistemi di cambio tra le monete e le regole commerciali e del debito pubblico, in quella gabbia d’acciaio che è oggi l’eurozona.
Il ricordo ci fa salire alla mente quei giorni di novembre del 1975 quando a Rambouillet, sotto l’attenta cura di quel grande uomo politico che fu ed è Valery Giscard d’Estaing, si celebrò il primo G6, ossia la riunione di capi di stato e di governo di Francia, Germania Ovest e Gran Bretagna, Stati Uniti, Giappone e Italia. Erano anni difficili. anni seguiti alla Guerra del Kippur dell’agosto 1973 con la crisi petrolifera e l’aumento del prezzo del greggio di ben quattro volte in sei mesi e soprattutto con l’avvento di quella che allora si chiamava stagflazione, ossia una stagnazione con inflazione, tutto il contrario di quel che accade oggi.
Quel grand’uomo che era allora il presidente della Francia propose una riunione delle sei grandi potenze mondiali, d’intesa con Helmut Schmidt, il più grande cancelliere tedesco dopo la Seconda guerra mondiale. La preoccupazione era immensa. I “trent’anni gloriosi” di crescita ininterrotta europea e mondiale, seguiti al 1945, pareva dovessero terminare. E questo colse tutti di sorpresa. È pur vero che i ministri delle Finanze di Francia, Gran Bretagna, Germania Ovest, Giappone e Stati Uniti si riunivano da tempo nella sala della Library della Casa Bianca per discutere il da farsi. A queste riunioni, solo occasionalmente, il nostro italiano ministro delle Finanze veniva invitato. E questo suscitava non poche irritazioni in Italia e, stupefacente a dirsi, anche negli Usa. Infatti, furono proprio gli Stati Uniti a imporre la partecipazione dell’Italia alla riunione di Rambouillet.
È un episodio che occorre ricordare perché solo la perseveranza di Aldo Moro, allora presidente del Consiglio, e del ministro degli Esteri Mariano Rumor, consentirono all’Italia di partecipare a quel summit con un’abile mossa diplomatica: non sollecitarono l’invito all’Eliseo, ossia alla Francia, ma diedero via libera al segretario generale della Farnesina, che allora era Raimondo Manzini, affinché agisse sulla base dei contatti personali con i francesi, gli inglesi, i tedeschi occidentali e Washington, e tessesse una tela ben ordita così da raggiungere l’obiettivo della convocazione. Quel vertice fu decisivo per il nostro Paese, perché da allora nessuno osò più escluderci dalle riunioni delle potenze mondiali in cui si decideva l’avvenire del mondo o, quanto meno, si credeva che quei destini fossero decisi o influenzati dai capi di governo.
Mi colpisce ricordare che da quella riunione scaturirono degli obiettivi profondamente diversi da quelli di oggi, obiettivi fondati su un impegno di cooperazione, tutti incentrati sull’economia reale: investimenti per ridurre la disoccupazione, controllo delle quantità monetarie eccedenti i target concordemente fissati dalle banche centrali per contenere l’inflazione, controllo, eliminazione e determinazione dei livelli di consumo energetico per far fronte all’aumento dei prezzi. Oggi tutto è cambiato. Innanzitutto, come si è verificato nel G7 svoltosi in Giappone, il problema non è più l’inflazione, ma la deflazione che produce una stagnazione che può essere secolare. In questo senso Shinzo Abe, premier del Giappone, ha propugnato una politica di deficit spending, rifiutando di aumentare le tasse nel suo Paese, per contrastare non l’inflazione ma la terribile deflazione che condanna il Sol Levante da un trentennio alla non crescita. E poi è cambiato anche il contesto europeo: l’equilibrio di potenza nel Vecchio Continente è stato completamente rovesciato a favore della Germania riunificata che cresce grazie al surplus commerciale immenso che essa realizza imponendo, attraverso le regole dei trattati europei, a tutte le altre nazioni un regime di bassi salari e quindi di bassi costi dei beni intermedi che importa così da realizzare i magnifici surplus di esportazione.
Quarantotto anni dopo Rambouillet, gli Usa sono ora in ritirata dall’Europa, ma hanno tuttavia ancora un disegno imperiale mondiale, anche se le divisioni profonde nel gruppo di comando delle disgregate élite nordamericane non lo rendono visibile come si dovrebbe, come tutto il mondo meriterebbe. Attendiamo dagli Usa ciò che gli Usa ci diedero quarant’anni or sono, ossia la non esclusione dall’equilibrio di potenza mondiale fondato sull’alleanza transatlantica e quindi dai flussi del commercio mondiale. Ed è proprio questa perseveranza transatlantica la migliore risposta all’avvento quale che sia della Brexit. Di questo sono pochissimi in Italia ad avere contezza, a cominciare dagli imprenditori. Comprendere tutto ciò è decisivo, perché solo il legame con gli Usa ci può salvare dal prossimo tsunami mondiale. Si addensano infatti le nubi e si alzano le maree di uno tsunami molto più grande di quello del 2008.
La causa di ciò è nella tendenza alla deflazione europea che minaccia tutta l’economia mondiale e segnala la potenza distruttiva del nazionalismo economico tedesco. E, dall’altro lato, evidenzia l’utopia, altrettanto distruttiva, delle cure monetarie alla crisi. L’eccesso di finanza perversa (derivati, collateralizzazione del debito, ecc.), non si sconfigge con l’eccesso di emissione di moneta come fa la Bce. Mario Draghi è prigioniero della sua formazione neoclassica. La moneta, a suo parere, può curare i mali della recessione imminente. È pur vero che egli sollecita le riforme strutturali dei governi, ma qui sta l’inganno: le riforme che sollecita favoriscono la crisi. Alte tasse, riduzione dei debiti tout court, senza distinguere tra il debito che fa bene (investimenti pubblici per creare lavoro e quindi domanda interna), pervicace negazione di ogni intervento pubblico nell’economia, laddove non è sperpero parassitario, ma creazione di sana occupazione. Se non si comprende questo, la decisione annunciata dalla Bce di acquistare i corporate bond delle grandi imprese che rischiano di vedere aumentare il loro debito e di veder fallire le loro spericolate manovre finanziarie è un suicidio. Se tali politiche verranno ancora una volta attuate altro non faranno che aumentare l’enorme bolla di liquidità che gonfia le nuvole della tempesta. Taluni uomini della cuspide finanziaria internazionale dispiegata già si muovono sulla difensiva.
Insomma, forse è meglio pensare seriamente a tornare a Rambouillet, gettandosi alle spalle i tempi della finanza “evoluta” perché speculativa e devastante, e dell’Europa fondata sulla deflazione che non condivide sovranità ma la sottrae, in una guerra infinita tra le potenze continentali. È ora di tornare all’età della ragione. E questa è la migliore risposta alla Brexit. È la non consapevolezza della tragedia imminente che deve farci paura, non il ritorno della storia al suo posto, ossia la fuoriuscita del Regno Unito da un’Europa a cui quell’impero non ha mai guardato se non con preoccupazione per le potenze via via dominanti che potevano nei secoli minacciare il suo potere mondiale: la Spagna , la Francia e infine, ieri come oggi, la Germania.
Solo la pressione Usa protesa alla sconfitta dell’Urss costrinse il Regno Unito ad abbandonare l’Efta nel 1976 e a entrare con una clausola opzionale fondata sulla non adozione dell’euro all’Europa Unita. Ora l’Urss è crollata e la bomba atomica inglese non serve più in funzione antisovietica.
La storia riprende il suo corso. Nonostante la gabbia artificiale e drammaticamente catastrofica della politica istituzionale e della politica economica europea.