“Things fall apart; the center cannot hold; mere anarchy is loosed upon the world” scriveva W. B. Yeates. Se assumiamo che la categoria di complessità sia utile per comprendere la dinamica della fase attuale della globalizzazione, se pensiamo, cioè, che la nostra contemporaneità si caratterizzi per un’irriducibile difficoltà nel decifrare i processi in atto, lo spettacolo che offre il dibattito su Brexit ha sicuramente un effetto straniante. Opposti schieramenti si affrontano a colpi di incrollabili certezze, mentre la crisi sembra avvitarsi e aprire scenari imponderabili.



Inseguire in modo compulsivo il flusso di notizie che quotidianamente travolge gli osservatori, ci impedisce di cogliere la natura della transizione in atto, il sincopato susseguirsi di eventi spettacolarizzati dai media sposta la nostra attenzione dai processi e quindi dalla realtà.

Con Brexit, l’elezione di Trump e il trattato di Aquisgrana – eventi strettamente correlati e che rappresentano le tappe di un unico processo – siamo entrati in una nuova fase della globalizzazione, i cui esiti sono al momento irreversibili e imprevedibili. Il livello d’analisi che riduce un contesto di tale complessità a una teoria della scelta in cui basterebbe il comportamento razionale delle classi dirigenti per risolvere la crisi in atto, risulta perlomeno semplicistico. Se non è mai stato utile sovrapporre alla realtà un modello astratto partorito dalla fantasia degli economisti, farlo in un contesto magmatico come quello attuale rasenta la sconsideratezza.



In definitiva, stiamo assistendo agli atti finali del crollo del Washington Consensus, ovvero della logica finanziaria che ha mosso l’economia globale dalla fine degli anni Ottanta e che si è caratterizzata per una ri-centralizzazone dei capitali – in un movimento opposto a quello che si è registrato negli anni del Keynesian Consensus – che dalle periferie si è indirizzato verso le aree ad alto reddito.

La crescente mobilità dei capitali, favorita dalla deregulation, dall’uso spregiudicato del leverage e dall’introduzione delle nuove tecnologie, ha prodotto un crescente livello di instabilità, che è sembrato raggiungere il parossismo nelle fasi che hanno immediatamente seguito Brexit. Molto si è discusso circa il progressivo abbandono della Gran Bretagna da parte di aziende preoccupate delle conseguenze del Leave, ma non s’inserisce questo fenomeno in una cornice più ampia che tenga conto del fatto che in una fase di esasperata volatilità come quella attuale, non c’è più un centro che attragga capitali – come avveniva negli anni del Washington Consensus – e che l’architettura finanziaria che ha sostenuto l’edificio dell’economia globale è in una fase di completa ristrutturazione.

Se proprio si vuole cedere alla tentazione di decretare la morte della City, conviene ricordare che l’unico grande mercato dei capitali finanziari è sostanzialmente anglo-americano e che la vera questione consiste nel capire come esso reagirà alla palese incapacità del centro del sistema di accumulazione di ritrovare la sua coerenza interna e, quindi, di garantirne la sua riproduzione.

In questa fase d’incertezza non ci sono filosofie della storia in grado di soccorrerci, né tantomeno possono confortarci le certezze dei modelli neoclassici e la ricerca delle élites perfette di alcuni neo-istituzionalisti, piuttosto la sensazione che accompagna chi prova a riflettere su questa fase è quella di oscillare fra due polarità concettuali, ovvero fra l’utopica rievocazione di una nuova Bretton Woods, in cui una potenza egemone, che al momento non c’è, sia in grado di domare la libera circolazione dei capitali, garantendo una nuova fase di espansione materiale, e la ricerca di un’autosufficienza economica in grado di mettere un’economia nazionale al riparo dalle turbolenze, salvaguardando le industrie e il mercato del lavoro.

Il rimando a Keynes è evidente, come non può sfuggire al lettore più attento che il saggio “Autosufficienza economica” fu pubblicato nel 1933, a ridosso, cioè, di una delle pagine più drammatiche della nostra storia, quando per Paesi come Germania e Italia l’autosufficienza economica si declinò nelle forme dell’autarchia. Un passato che sembra drammaticamente ritornare. Allora come adesso il problema sembra vertere sul bilanciamento dinamico – cosa decisamente diversa dall’equilibrio economico generale – fra la liberalizzazione dei commerci e l’autonomia economica di una nazione che punti al livello massimo di occupazione.

A ben vedere l’essenza di Brexit poggia proprio su questa questione, come non può sfuggire che solo attraverso un accordo fra il mondo delle grandi imprese e i lavoratori, ovvero fra May e Corbyn – un tempo si sarebbe detto fra capitale e lavoro – la Gran Bretagna può attraversare la transizione in atto. Una convergenza tra le posizioni della May e di Corbyn al momento sembra un’ipotesi difficile da realizzarsi, ma le rigidità franco-tedesche che si sono manifestate nel trattato di Aquisgrana potrebbero spingere i sudditi di Sua Maestà a ricompattarsi, trovando così una risposta alla paura di chi vedeva come conseguenza del Leave la scomposizione territoriale del Regno Unito.

Ad ogni modo fare previsioni in un’epoca d’incertezza non è un esercizio particolarmente facile; quello che sembra evidente è che con Brexit siamo entrati in una crisi perenne, in cui sembra difficile separare la dinamica dell’economia dalla politica di potenza delle nazioni più importanti dello scacchiere internazionale. La novità di questa fase è che non stiamo assistendo a una lotta per l’egemonia, quanto piuttosto a una lotta per la sopravvivenza che si caratterizza per essere un gioco a somma zero, in cui i singoli partecipanti lottano per sottrarsi a vicenda a mercati e a sfere di influenza.

Imputare agli elettori britannici l’intera colpa di aver gettato l’Europa in questa fase di anarchia può essere utile per vendere giornali o in campagna elettorale, ma di certo ci allontana dalla comprensione del quadro d’insieme.