Doccia fredda dell’Istat sulle prospettive di crescita. Dopo tre anni di espansione il Pil italiano nel terzo trimestre è rimasto invariato rispetto ai tre mesi precedenti, tanto che la variazione tendenziale 2018 si ferma al +0,8%, ben distante dal +1,2% previsto. Insomma, l’economia è “stagnante”, zavorrata dalla debolezza dell’attività industriale, tanto che anche la fiducia delle imprese ha fatto segnare il terzo calo consecutivo, toccando i livelli più bassi dal dicembre 2016. Il quadro non fa altro che complicare molto le aspettative del governo, come ha subito dimostrato l’impennata dello spread, schizzato a quota 311. Questo brusco stop del Pil è un segnale molto preoccupante? “Sì, e per diversi motivi – risponde Luigi Campiglio, professore di Politica economica all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano -. Innanzitutto perché è una stima che arriva, come sempre, insieme ai dati Eurostat sull’area euro e sull’Unione europea. E complessivamente l’eurozona sta decelerando, pur se l’impatto complessivo tendenziale e congiunturale resta positivo.
E il secondo motivo di preoccupazione?
Il divario con il Pil Usa rimane a favore degli Stati Uniti, nonostante il fatto che sia ormai in atto una correzione del profilo di crescita americano, che è in attesa piuttosto ansiosa di che cosa farà tra pochi giorni la Federal Reserve. Se la Fed dovesse muoversi ancora con un aumento, piccolo ma significativo, dei tassi, è possibile che la crescita americana risulti sopravvalutata e a quel punto è sufficiente uno spiffero, per esempio la previsione degli utili, perché la correzione si verifichi.
Con quali conseguenze?
Che l’Europa risulta coinvolta in questo frangente internazionale molto fragile e noi lo ancor di più, vista la nostra posizione di pura transizione, non particolarmente forte. A complicare, poi, il quadro europeo c’è anche la posizione della Merkel, che ha già annunciato le sue dimissioni da leader della Cdu, mantenendo invece la carica di cancelliera, ma dovesse verificarsi un eccessivo alzare di sopracciglio potrebbe dimettersi anche da questa carica. La situazione a livello internazionale è fragile e noi purtroppo in questo frangente siamo un anello debole.
Lo stop del Pil rende ancora più difficile per il governo centrare gli obiettivi di crescita, ritenuti già troppo ottimistici, per il 2019?
Decisamente, perché a questo punto abbiamo un tendenziale inferiore all’1%. E in questo quadro, con una correzione in corso dell’economia americana e con tutti i problemi, che ci riguardano, con la Cina, noi certamente ne soffriamo. Abbiamo sì avuto un po’ si segni “più”, ma sempre un “più” che era il più basso di tutti gli altri Paesi. Insomma, saremmo già bravi se riuscissimo a tenere il passo. Tutt’al più possiamo auspicare una ventata di ottimismo, non solo di sentiment ma anche di domanda interna, con l’arrivo del periodo natalizio.
Lei parla di ventata di ottimismo della domanda, intanto la fiducia delle imprese ha registrato il terzo calo consecutivo, riportandosi sui livelli più bassi da dicembre 2016. Domanda interna e componente estera non danno alcun contributo. Come giudica questi dati?
Li valuto con grande preoccupazione, perché se il sentiment delle imprese è questo, vuol dire che di certo non mandano avanti gli investimenti e anche i livelli occupazionali potrebbero rimanere sul filo del rasoio. Non abbiamo solo i divari Usa-Europa ed Europa-Italia, ma anche i gap tra Nord Italia e Mezzogiorno, una distanza che però si registra su livelli bassi, visto che anche il Nord resta, nelle sue componenti migliori, su standard europei, ma sempre più assediato.
A complicare ulteriormente il quadro c’è anche il fatto che rispetto ai livelli pre-crisi siamo ancora sotto del 4,9%. Il tunnel della crisi è ancora lungo per l’Italia?
Non voglio calcare la mano, ma il Pil pro capite 2017 era, a prezzi costanti, al livello dell’anno Duemila, a essere generosi. Non mi meraviglia questo ritardo: abbiamo avuto, e continuiamo ad avere, una crisi strutturale, di cui dovremmo prendere atto per muoverci di conseguenza.
Di Maio ha dichiarato: “I risultati 2018 dipendono da conti Pd del 2017”. E’ davvero così? Il nuovo governo non ha proprio nulla da rimproverarsi?
Un anno fa, oggi, sfido chiunque ad aver previsto che dalla fine di gennaio in poi si sarebbe verificato un cambio di passo dell’economia mondiale. Come faceva a prevederlo il Pd? Si possono imputare al governo precedente molte cose, ma non questa.
Secondo Conte, lo stop del Pil era previsto, “per questo abbiamo fatto una manovra espansiva”. E’ una manovra davvero in grado di rispondere alle sfide in arrivo, correzione della crescita Usa e decelerazione dell’economia europea?
L’impatto positivo che può derivare da una spesa in disavanzo deve essere fatto in un contesto che sia proporzionato, temporalmente corretto e con gli strumenti più appropriati.
Che cosa significa?
In questo momento di grave difficoltà le imprese di certo non si mettono a investire in ampliamenti dell’attività. E, in secondo luogo, abbiamo bisogno di una manutenzione del Paese indifferibile: questo potrebbe essere un investimento che dà lavoro, con un effetto moltiplicatore certamente più robusto del reddito di cittadinanza. Anche se non si vuole negare l’importanza di un sostegno al reddito a chi un lavoro non ce l’ha.
Francesco Boccia in un’intervista al Sussidiario propone di destinare i 10 miliardi utilizzati per gli 80 euro e i 10 miliardi per il reddito di cittadinanza allo scopo di tagliare il cuneo fiscale in maniera stabile per rilanciare l’economia e l’occupazione. È una ricetta efficace?
Sono molto netto: secondo me, no.
Perché?
Perché siamo nell’euro. La concorrenza si gioca su altro, sull’innovazione, non certo sugli oneri fiscali, che sono già stati ridotti più volte. Le imprese non sono state adeguatamente accompagnate verso l’innovazione, a parte Industria 4.0. Bisogna attivare una grande spinta sull’innovazione. In mancanza dello strumento del tasso di cambio, utilizzato in passato, si fa una riduzione dei contributi sociali, ma non può durare in eterno una situazione del genere. La Germania è diventata il king maker dell’economia europea grazie proprio all’innovazione. Questa è la strada.
Visto che parliamo di Germania, la Bundesbank invoca la patrimoniale del 20%. E’ una proposta dannosa e irricevibile?
E’ una lettura affrettata, schematica di quel che dicono i numeri. Questi conti vedono al numeratore le attività reali e finanziarie. Abbiamo avuto un aumento di questo rapporto sul Pil in Italia e in Francia soprattutto perché, al numeratore, è aumentato di molto il patrimonio immobiliare. E qui nascono i problemi. L’unica manovra che si potrebbe fare è la classica operazione d’emergenza dalla sera alla mattina: un prelievo sui conti correnti? La fece Amato nel ’92 e ancora ne abbiamo memoria. Ma oggi che facciamo, prendiamo tutti i conti correnti e li tagliamo con una mannaia? Mi sembrano prelievi da Unione Sovietica. Il problema è che a fronte di un numeratore, il capitale, che è cresciuto, c’è un denominatore, il Pil, che anziché aumentare con la stessa intensità con cui cresceva la propensione all’acquisto dell’abitazione, prima è andato in negativo, poi è risalito, ma poco e lentamente. Questo ha creato un rapporto tra stock di capitale e Pil che è probabilmente il più alto al mondo fra i Paesi sviluppati. Ma, a questo punto, non ci resta che diventare un po’ meno sviluppati?
Ieri Tremonti sul “Sole 24 Ore” ha suggerito di tornare alla manovra di Quintino Sella del 1864, quando “decise di ‘esentare da ogni imposta presente e futura’ i titoli del debito pubblico e di renderli impignorabili. Tornare a quella suggestione per l’Italia di oggi, che esporta capitali e importa fragilità o che esporta risparmio e importa debito, sarebbe ancora una volta la scelta giusta”. Che ne pensa?
Una proposta, calibrata sui dettagli, che riporti, come negli anni Novanta, il debito pubblico a essere largamente detenuto all’interno, ci può stare, anche nell’ottica di guadagnare tempo per mettere in opera delle politiche di crescita per l’economia reale. Ma vedo due rischi: uno, bisogna mettere in conto minori entrate per 6-10 miliardi; due, attenzione al rischio della ridenominazione in lire. Ricordiamoci, poi, che stiamo pur sempre parlando di ingegneria finanziaria, che negli ultimi 15 anni ha dato il meglio di sé nel bene, ma soprattutto nel male. Secondo me, invece, è il caso di guardare di più al settore reale e a come finanziare senza eccessivi rischi le buone idee delle buone imprese.
(Marco Biscella)