Apple archivia il trimestre con utili record per 14 miliardi di dollari dopo aver venduto, a prezzi in ascesa, quasi 47 milioni di iPhone e registrando, per ogni linea di business (iWatch, iPad, servizi e così via), una crescita a doppia cifra. Troppo poco per i mercati azionari che, una volta annunciati i risultati, già nella notte hanno punito la Mela con un secco ribasso che ha spinto il titolo giù del 7% abbondante, sotto la soglia dei mille miliardi di valore di borsa, traguardo conquistato lo scorso 2 agosto. La settimana scorsa una sorte altrettanto amara era toccata ai Faang (Facebook, Amazon, Alphabet, casa madre di Google, e Netflix) giù di 200 milioni di dollari in sole 48 ore. Dai massimi della scorsa estate i quattro campioni della new economy hanno bruciato circa 500 miliardi di dollari di valore, passando da 2.300 a 1.800 miliardi.



Probabilmente, a parte gli addetti ai lavori, però, non sono molti a essersi accorti di un tracollo che, fino a poche settimane fa, avrebbe rappresentato l’apertura obbligata dei quotidiani di tutto il mondo, oggi concentrati sulla marcia dei latinos dall’inferno del Centro America verso la frontiera Usa (forse non ci arriveranno mai, ma serviranno alla propaganda di Trump in vista delle elezioni di martedì), piuttosto che sulla guerra dei dazi o il braccio di ferro sulla manovra italiana. Anche così si ratifica la fine della stagione d’oro dei mercati azionari, figli dell’illusione che la crescita globale avrebbe distribuito ricchezza un po’ dappertutto.



Oggi, al contrario, gli esperti ci avvertono che, a partire dagli Usa, si va verso una stagione assai meno scintillante. Niente di drammatico, per la verità. Il livello degli utili è in crescita, la riforma fiscale Usa è una garanzia per le Corporations. Anche un successo democratico non sposterà più di tanto la bilancia nel prossimo futuro. Ma ci sono due novità. I mercati si sono convinti che i multipli di Borsa sono destinati a ridimensionarsi. Gli operatori non credono più, ad esempio, che Netflix (che oggi tratta a più di 100 volte i profitti) possa garantire in futuro una crescita altrettanto esplosiva. Ma la revisione verso il basso delle previsioni sugli utili, in varie proporzioni, riguarda vecchia e nuova economia. Certo, la crescita è ancora robusta. Ma le risorse stanno confluendo negli Usa a poco a poco verso la creazione di nuovi posti di lavoro, dopo l’iniezione decennale di fondi a sostegno dei mercati, una politica obbligata per evitare il collasso delle Borse e inconvenienti ancora peggiori.



Al contrario, con grande dispetto di Trump, la Federal Reserve (ancora composta per lo più da banchieri nominati da Obama o, peggio ancora, da repubblicani vicini a George Bush che vedono il Presidente come il fumo negli occhi) procede a tappe forzate alla riduzione del bilancio della banca centrale, una manovra che già sta incidendo sulla liquidità disponibile e, di conseguenza, sulle munizioni a disposizione per la speculazione finanziaria.

Sul fronte dei tassi, al di là di un possibile stop a dicembre, si rafforza la tendenza al rialzo ben visibile per i Bond trentennali che, con moto lento ma inesorabile marciano verso il 3,4%, sostenuti dalla fame di capitali del Tesoro, alle prese con la politica fiscale espansiva di Donald Trump che per il 2019 prevede un deficit del 6% (più che doppio rispetto alla contestata manovra italiana).

In sintesi, sta per esaurirsi una stagione di crescita attraverso la finanza. Prende corpo un paradigma diverso in cui il mercantilismo americano fa i conti con la Cina, che si converte da economia orientata all’export a una dimensione più domestica, a danno degli scambi con l’Europa (moda italiana e francese, auto tedesche). Il Vecchio Continente è destinato a soffrire più di tutti per l’incapacità di proporre un nuovo modello di crescita che non sia basato sul surplus delle esportazioni. Sia verso il resto del mondo, sempre più insofferente verso i tassi europei vicino allo zero che provocano la sottovalutazione dell’euro, che all’interno dell’Ue, oppressa dalla prevalenza della Germania che, incurante di regole e di buon senso, continua a rifiutarsi di rimettere in circolo le risorse sotto forma di investimento.

Di qui uno squilibrio crescente che potrebbe esplodere in coincidenza con la lenta uscita di scena di Angela Merkel, che è sempre riuscita ricomporre le tensioni in extremis. Al contrario, in risposta alla manovra espansiva italiana, i Paesi del Nord stanno per pubblicare la richiesta di regole più strette che consentano a Bruxelles di intervenire in via preventiva sugli squilibri di bilancio vincolando le politiche dei singoli Paesi. Al di là delle follie estemporanee della maggioranza giallo-verde, stanno venendo al pettine le contraddizioni di fondo. In un mondo che, da Trump a Bolsonaro, passando per una lunga fila di aspiranti Peròn, non promette nulla di buono.