Primo trimestre 2018, mentre l’Italia politica fibrilla in vista delle elezioni, l’Italia economica cresce ancora dello 0,3% rispetto al trimestre precedente. Secondo trimestre, dalle urne esce un successo del centrodestra e del Movimento 5 Stelle, ma la Lega si stacca e si allea con i grillini per far nascere il Governo giallo-verde: il prodotto lordo nel frattempo rallenta e fa segnare un più 0,2%. Terzo trimestre, dal contratto di governo emergono il reddito di cittadinanza e una riduzione dell’età pensionabile, il ministro dell’Economia riscrive il Documento di economia e finanza, lo spread tra titoli di Stato decennali italiani e tedeschi balza oltre il 3%: il Pil fa registrare meno 0,2%. Quarto trimestre, comincia il braccio di ferro sulla politica fiscale tra il Governo italiano e l’Unione Europea, mentre le tensioni sui mercati dei titoli pubblici e privati colpisce la capitalizzazione delle banche e aumenta i costi del debito pubblico: non sappiamo come sta andando il Pil, per i primi tre trimestri i conti vengono dall’Istat, per quello in corso è ancora un’ipotesi basata però sull’andamento degli indici sulla produzione manifatturiera, tuttavia sembra che sia ancora in discesa.
Non vogliamo arrivare a nessuna conclusione, anche se la congiuntura politica ricade su quella economica. Tuttavia, una cosa è chiara: il ciclo si è invertito fin dall’estate, cambia profondamente l’intero palcoscenico sul quale recitavano a primavera gli attori della politica e dell’economia. Eppure sembra che nessuno se ne sia accorto. Come il cane di Pavlov, tutti continuano a comportarsi in base a un riflesso condizionato. Il Governo italiano ha il primato del pavlovismo, anche perché il rallentamento qui si sta trasformando in vera e propria recessione, mentre si continua a immaginare una crescita per l’anno prossimo dell’1,5% e si mette in cantiere la redistribuzione di un reddito che non è stato e quasi certamente non verrà prodotto. Ma nemmeno l’Unione Europea sembra consapevole di come e quanto velocemente stiano cambiando le variabili fondamentali.
Naturalmente, non siamo di fronte all’ineluttabile, è ancora possibile frenare la discesa se non proprio invertirla. Mario Draghi è preoccupato, ma non pessimista e la Bce non ritiene di dover rinviare la fine del Quantitative easing, anche se manterrà gli interessi ai minimi e i rubinetti della liquidità aperti per tutto l’anno prossimo. Draghi, che ieri ha bacchettato l’illusione sovranista ricordando che quando non c’era l’euro decideva il più forte, cioè il marco tedesco, conta di chiudere il suo mandato nel prossimo ottobre lasciando l’impronta indelebile della svolta, con la Bce convertita a una politica monetaria decisamente eterodossa (nemmeno la Federal Reserve si è spinta fino ai tassi d’interesse negativi). Dunque, la banca centrale continuerà a sostenere la domanda, ma non sarà sufficiente senza un sostegno della politica fiscale o di bilancio che dir si voglia.
Quel che c’è da fare, Draghi lo ha detto e ripetuto anche recentemente: i paesi ad alto debito debbono ridurlo, quindi non possono finanziare nuove spese in disavanzo; i paesi in equilibrio, o addirittura in attivo come la Germania, debbono allentare i cordoni della borsa. Draghi si è spinto al punto da sollecitare esplicitamente un aumento dei salari, quindi non lo si può accusare di snobbare la domanda per consumi, ma è altrettanto chiaro che per impedire la recessione occorre aumentare gli investimenti (privati e pubblici) e la produttività a cominciare dai paesi come l’Italia dove si è ridotta o dai settori economici (manifattura obsoleta e servizi) dove ristagna. Non spetta alla Bce la politica fiscale, che resta prerogativa dei governi nazionali, ma la ricetta è ovunque la stessa, anche se va somministrata in dosi e modi diversi. Purtroppo, è una ricetta che nessuno ama, né l’Italia, né la Commissione europea, né i paesi più forti.
In questo quadro, la trattativa defatigante tra Roma e Bruxelles diventa inattuale se non surreale: altro che cinque stelle, è una sceneggiata lunare. Con il 2,04% si è raggiunto il teatro dell’assurdo, Giovanni Tria e Pierre Moscovici sembrano gli Smith e i Martin nella più nota pièce di Jonesco, solo che questa volta la cantatrice calva entra in scena sotto forma di recessione. Se la Commissione avesse una chiara percezione di quel che sta accadendo dovrebbe tirare gli orecchi all’Italia non per lo zero virgola, ma per la qualità della manovra, per la mancanza di investimenti, per il nulla a proposito della produttività, per lo spreco di risorse e il sistematico rifiuto di non ridurre la spesa corrente che non genera crescita. Altro che keynesismo, siamo all’economia del voo-doo.
Non è solo l’Italia, né solo la Francia a dover essere messa sotto osservazione: spetta a Bruxelles pretendere che i paesi dell’Unione, a cominciare da quelli della zona euro, coordinino le loro politiche economiche in funzione anti-ciclica. La recessione non fa bene a nessuno. Va bene che la Commissione è in scadenza, ma era stata nominata promettendo un pomposo programma di crescita basata sugli investimenti e lascia con una decrescita per mancanza di investimenti. C’è ancora tempo per un riscatto sia pur tardivo. Juncker, se ci sei, batti un colpo nella giusta direzione.