Il debutto del 2019 in Borsa ha dissipato i timori di un rapido avvitamento del listini così come lasciava intendere il bilancio magro dell’ultimo anno, il peggiore dallo scoppio della crisi di Lehman Brothers. Certo, la crescita continua a scricchiolare, specie nelle grandi economie basate sull’export, Cina e Germania in testa. Ma i segnali di frenata non hanno impedito ai mercati azionari di mettere a segno progressi, in un certo senso sorprendenti. A partire dall’Italia, oggi il miglior listino in Europa con un rialzo dall’inizio di gennaio superiore al 5%, che s’accompagna al rimbalzo dell’indice Star, quelle dedicato alle piccole e medie imprese con le spalle più robuste, che ha ripreso a salire dell’8% abbondante dopo un anno in grigio scuro. Ma, con l’eccezione di Parigi, frenata dalla crisi dei gilets jaunes che impatta direttamente sui consumi, tutte le piazze azionarie dei Paesi avanzati sono in ripresa. Così come gli Emergenti, premiati dall’indebolimento del dollaro che favorisce la migrazione dei capitali verso i Paesi più indebitati nella valuta Usa.



Ma quanto durerà la luna di miele? Quanto, al contrario, sarà violento il risveglio di fronte al conflitto, ormai planetario, che oppone sovranisti e globalisti. I due fronti già si stanno confrontando in Usa, dove Trump è pronto a usare i poteri straordinari, forse incostituzionali, per dare il via al Muro con il Messico, e presto si scontreranno in Europa alle prossime elezioni europee. E si annuncia un duello ancor più aspro già dalla prossima settimana nel Regno Unito, quando il Parlamento probabilmente boccerà il testo concordato dalla premier Theresa May con Bruxelles. E come impatterà il duello sulla crescita e sulle scelte dei vari governi?



Per tentare una risposta merita ripartire dalle cause della frenata del 2018. Possiamo individuare, al proposito, difficoltà di quattro tipi. La frenata si può spiegare innanzitutto, con il nuovo scenario geopolitico, caratterizzato dal confronto sui dazi e altri ostacoli al commercio, dalla Brexit e dal nuovo atteggiamento dell’Italia; in parallelo, c’è stato un rallentamento progressivo della crescita economica e, di riflesso, della previsione degli utili aziendali. A questo si è aggiunto un atteggiamento diverso della politica monetaria, culminata nei quattro aumenti dei tassi in Usa e la fine del Quantitative easing in Europa. Ad amplificare il fenomeno ci sono stati i fattori tecnici legati alla lunga crescita che i mercati hanno alle spalle dopo dieci anni di acquisti in Borsa.



All’inizio del 2019 questi ostacoli sono ridimensionati: Cina e Usa stanno tentando di raggiungere un’intesa ad ampio raggio (ancora lontana) sia sui commerci che sugli scambi di tecnologia; non è escluso un rimbalzo, seppur modesto, delle economie, specie in Europa a fronte di un costo del denaro che si manterrà a livelli bassi. Infine, dopo il brusco ribasso degli ultimi mesi del 2018, si è creato lo spazio per acquisti sui listini, come dimostra il livello dei dividendi attesi a Piazza Affari (il 4,3% circa, con punte più elevate per titoli primari, come Intesa ed Enel).

C’è spazio, insomma, per evitare frane o tracolli improvvisi. Ma il rallentamento delle economie, combinato con l’elevata volatilità e le prevedibili tensioni geopolitiche, lasciano intendere un anno contrastato da affrontare con prudenza. Senza farsi illusioni, insomma, su un’accelerazione della ripresa o, tantomeno, su un rally dell’economia che possa portare a un’accelerazione dei redditi, specie della classe media.

Quale impatto avrà questa situazione sull’andamento delle azioni di governo? In qualche maniera le elezioni saranno un test sulla validità della politica economica alla tedesca, per cui il bilancio pubblico è come quello di una famiglia e che lo Stato può spendere solo quello che raccoglie con le tasse, pena la trasmissione a figli e nipoti di un debito insostenibile. Una visione cui gli Usa contrappongono un debito pubblico in continuo aumento, senza peraltro aver provocato sfracelli in materia di inflazione.

In termini politici, si può dire che si contrappone la visione di Angela Merkel e Wolfgang Schaeuble, imposta all’Europa con il Fiscal compact, a una gestione finanziaria più “allegra” (ma che non ha per ora, provocato il boom dell’inflazione). I populisti possono sostenere che la visione ortodossa, imposta alle cicale italiane (ma anche francesi o spagnole), non ha risolto i problemi della classe media. Come dice Marc Lazard, docente di Sciences Po a Parigi, “l’emergenza non è più la disoccupazione, ma il potere d’acquisto”. Ovvero, l’occupazione cresce, ma lo stesso non accade al tenore di vita. Di qui la ricerca di soluzioni nuove, finora egemonizzate dalla destra “sociale” o dal protezionismo e dalla caccia all’emigrato (a meno che non si pieghi a forme di sfruttamento). Ma i Verdi in Germania, così come la sinistra democratica in Usa puntano su ricette diverse: più tasse ai ricchi (basta con il tentativo di attrarre i grandi patrimoni o di coccolare i più abbienti che portano lavoro), più deficit senza preoccuparsi troppo dell’aumento dei debiti, comunque già in ascesa geometrica.

Finita la stagione del Quantitative easing, si passa a un nuovo paradigma con cui una parte degli economisti cerca una via d’uscita alla depressione infinita.