A gennaio 2019, dopo “l’ampia flessione di dicembre”, l’Istat stima un “parziale recupero” dell’indice del clima di fiducia dei consumatori, che sale da 113,2 punti a 114. L’indice composito del clima di fiducia delle imprese, invece, fa registrare una flessione, passando da 99,7 a 99,2, confermando “il progressivo indebolimento in atto già dallo scorso luglio”. Non solo: ieri dalla Francia sono arrivati segnali di frenata (la crescita del Pil nel quarto trimestre 2018 è stata pari al +0,3% rispetto al +0,4% del trimestre precedente, con consumi e investimenti fermi al palo), mentre il ministero dell’Economia tedesco ha ridotto sensibilmente (+1%) le stime sul Pil 2019 della Germania, con un taglio di 8 decimi rispetto al +1,8% previsto a ottobre. Come vanno interpretati questi dati congiunturali? “La situazione resta un po’ tesa – spiega Mario Deaglio, professore di Economia internazionale all’Università di Torino ed ex direttore de Il Sole 24 Ore – perché lo scenario internazionale non è affatto roseo. Restano focolai di possibili guerre, e speriamo che nessuno vada fuori controllo né che il presidente americano Donald Trump voglia alimentarli. Poi ci sono le guerre commerciali: quelle in corso hanno ancora una portata limitata, ma sicuramente non fanno bene alla crescita. Siamo in un momento di incertezza, di ‘crescita stanca’, e abbiamo davanti un orizzonte appannato, che non autorizza certo conclusioni catastrofiche, ma neppure ci può rendere ottimisti. Il che ci costringe a muoverci su un terreno pragmatico, con la logica del giorno dopo giorno, degli aggiustamenti progressivi”.



L’indice delle famiglie, secondo l’Istat, è in recupero. Può essere un effetto legato alle ultime misure varate dal Governo, a partire dal reddito di cittadinanza?

Non si può escludere, anzi, una certa influenza può averla avuta e sicuramente non ha nuociuto. Il recupero si inquadra, peraltro, in una serie di indicatori che negli ultimi trenta giorni hanno mostrato quanto le famiglie non siano pessimiste: spese natalizie, saldi post-natalizi e vacanze nel periodo natalizio sono andate bene, e anche le vendite di auto a dicembre sono riprese, in un settore in cui aleggiava il timore che il mercato potesse iniziare a franare. Tutto, insomma, fa pensare che le famiglie, quando si riferiscono alla loro situazione personale, non temano disastri. Poi, però, quando alzano lo sguardo sulla situazione generale del Paese, qualche dubbio viene.



“Se nei primi mesi di quest’anno stenteremo – ha detto ieri Conte – ci sono tutti gli elementi per sperare in un riscatto, soprattutto nel secondo semestre”. Anche il Centro Einaudi, nel suo ultimo Rapporto, parla di una possibile crescita del Pil italiano che può salire dal +0,6%, tasso condiviso da molti centri studi, a un +0,9%. Quali fattori possono determinare questo colpo di reni, che avvicina le stime al +1% previsto dal Governo nella legge di bilancio?

Una premessa è d’obbligo. Quando diciamo che si potrebbe passare dal +0,6% al +0,9% è giusto ricordare che parliamo di indicazioni qualitative più che quantitative.

Che cosa significa?

Che da un livello sensibilmente basso ma positivo si potrebbe passare a un livello apprezzabilmente più positivo. Poi che questo si traduca in un +0,7%, +0,8%, +0,9% o anche +1%, oggi non è possibile prevederlo.

Sottolineatura doverosa, ma resta la domanda: che cosa può alzare il livello qualitativo della crescita del Pil?

Possono essere una serie di fattori. Intanto, è necessario che le famiglie mantengano un comportamento di sostanziale fiducia sulla loro situazione confermando i programmi di spesa, non altissimi ma neppure piccolissimi, già decisi. In secondo luogo, dobbiamo sperare che non si scateni una guerra commerciale mondiale, che avrebbe ricadute negative, dagli Usa alla Cina, sull’import di beni e prodotti europei, e quindi anche italiani. In terzo luogo, tutti ci auguriamo che gli investimenti crescano, non tanto sul fronte pubblico – qui non arrivano segnali incoraggianti, perché si è rinviato quasi tutto -, ma quanto meno da parte delle imprese.

A proposito di imprese, l’Istat segnala un nuovo calo di fiducia…

Bisogna tenere presente che questi indici hanno delle imperfezioni, non sono misure esatte. C’è, in pratica, l’indicazione che le imprese non aumenteranno i loro investimenti, ma dire se li ridurranno e di quanto o se confermeranno quelli di prima è una questione aperta.

Oggi, sempre dall’Istat, dovrebbe arrivare la stima preliminare del IV trimestre 2018, dopo che il terzo trimestre aveva già fatto segnare una stagnazione. Lei cosa si aspetta?

Mi aspetto un lieve segno negativo. Ma nessuno ricorda come queste stime vengono fornite.

Ricordiamolo.

Non sono mai dati grezzi. Possono essere corrette per la stagionalità o meno. E’ un dato importante, perché le stagioni hanno un loro ritmo fisiologico. Per esempio, la stagione produttiva di fine anno è più bassa rispetto a quella del trimestre precedente. La seconda correzione riguarda i giorni di calendario. In un trimestre, per l’industria, un giorno in più o in meno può fare una grossa differenza. Sul dato di oggi, che probabilmente non avrà la stagionalità ma i giorni di calendario, penso che qualche cosa in meno ci sarà.

Dalla Francia e dalla Germania, i nostri due principali partner commerciali in Europa, arrivano stime di crescita in forte rallentamento. Brutti presagi?

La Francia paga le proteste dei gilet gialli: tutti i sabati del trimestre hanno fatto registrare vendite zero. E qualcuno aveva già stimato il danno intorno a 10 miliardi di euro, non proprio due lire.

E la Germania?

Nel 2017 la Germania è cresciuta del 2,2% e nel 2018 dell’1,5%, ora, in questo momento, la previsione si ferma al +1%. Diciamo, una sensibile diminuzione di una crescita. Non siamo in recessione, abbiamo quella che io chiamo una “crescita stanca”, che avanza quasi per inerzia. Non ci sono al momento dei fattori che la blocchino, però nemmeno un driver che la possa spingere.

In effetti, nel giro di un mese, il sentiment complessivo è cambiato: a dicembre tutti paventavano l’imminente recessione, poi a inizio anno si è cominciato a parlare di rallentamento. Come mai c’è stato questo cambio, quasi repentino, di giudizio?

Questo rallentamento si vede in tutto il mondo. Il motivo di fondo è che c’è stato un grande cambiamento di atteggiamento nei confronti del mondo di internet.

In che senso?

Stanchezza del pubblico. Gli account di Facebook, per esempio, non aumentano più, anzi, almeno nei paesi ricchi, chi può abbandona. In più, crescono le accuse contro il mondo del web, accusato di favorire il terrorismo o il bullismo. E l’Ocse sta pensando a una web tax concordata in 127 Paesi, il cui principio base è che i giganti digitali paghino le tasse non nel Paese in cui hanno il quartier generale, ma nel Paese in cui vendono il prodotto. E’ un segnale del cambio di atteggiamento di cittadini e consumatori che spiegano la stanchezza della ripresa. A questa ripresa manca un prodotto simbolo, uno stile di vita simbolo, non c’è nulla in grado di raccogliere l’entusiasmo e senza entusiasmo non ci sono riprese vere.

Intravede possibili driver per il 2019?

In Italia non intravedo granché. Eccetto, forse, l’alimentare, un settore in cui noi abbiamo delle carte da giocare. L’idea del cibo naturale e sano può, in effetti, dare un contributo, ma non più di tanto.

Gli Usa saranno ancora la locomotiva del mondo?

La vera locomotiva in questo periodo è stata la Cina. Se Trump continua nella sua politica, al massimo gli Stati Uniti saranno la locomotiva di loro stessi.

(Marco Biscella)