L’Istat ieri ha certificato l’ingresso dell’economia italiana in recessione. Dopo il -0,1% del terzo trimestre del 2018, infatti, è stato registrato un -0,2% nel quarto. A questo punto, “nel 2018 il Pil corretto per gli effetti di calendario è aumentato dello 0,8%”. Il Premier Giuseppe Conte già mercoledì aveva detto di aspettarsi “un’ulteriore contrazione del Pil”, ma aveva anche detto che “ci sono tutti gli elementi per sperare in un riscatto e ripartire con entusiasmo”, soprattuto nella seconda parte dell’anno. E aveva anche sottolineato che a febbraio partirà il piano per il riammodernamento e la sicurezza delle infrastrutture, che dovrebbe contribuire al rilancio dell’economia. «Certamente sui dati del Pil del quarto trimestre ha pesato la battuta d’arresto della Germania, ma mentre si ha l’impressione che quella dell’economia tedesca sia stata una fase momentanea, recuperabile in corso d’anno, per noi la situazione è diversa», ci dice Luigi Campiglio, Professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano.



Per quale motivo?

Nel suo comunicato, l’Istat evidenzia che c’è stato un apporto positivo della componente estera, mentre il contributo della componente nazionale della domanda è stato negativo. In questo senso c’è un dato che credo abbia pesato tanto: è da tempo che i consumi interni per beni non durevoli fanno registrare performance negative trimestre su trimestre.



Esattamente da quando?

Il calo parte dal secondo trimestre del 2017, con un’interruzione positiva nel terzo, e poi prosegue costantemente. Quindi dal quarto trimestre 2017 abbiamo -0,2%, -0,1%, -0,1% e -0,5%. Se l’Istat dice che c’è stato un calo della domanda nel quarto trimestre 2018 vuol dire che abbiamo avuto cinque trimestri consecutivi di diminuzione dei consumi di beni durevoli. Stiamo parlando della spesa quotidiana, dei consumi ripetuti, il cui valore nel terzo trimestre del 2018 è di fatto risultato uguale a quello del terzo trimestre del 2013: in buona sostanza in cinque anni i consumi per beni non durevoli sono rimasti inchiodati.

Si può sperare in un recupero del Pil nel 2019 come suggerisce Conte?

Bisognerebbe inanellare aumenti trimestrali del Pil di una consistenza che dal 2013 abbiamo visto solamente tre volte. Dobbiamo ricordare che partiamo da un dato negativo e non ci possiamo attendere che il primo trimestre sia nel segno di una ripartenza a razzo. La percezione che personalmente ho è che il turnover dei beni durevoli sia probabilmente in esaurimento e che sia complicato cercare di fare perno solamente sul settore dei servizi, perché non ha particolarmente brillato, è rimasto stabile nell’ultimo trimestre. Mi sembra che emerga un problema che riguarda la domanda interna e i consumi delle famiglie.

Il Reddito di cittadinanza può rispondere a questo problema, tenendo comunque conto che prima di aprile non ci sarebbe?

In questa situazione il tempo è purtroppo un elemento strategico. Perché una misura economica di questo genere sia efficace, inoltre, deve anche avere i caratteri della stabilità. Il reddito di cittadinanza, come ho avuto già modo di dire, può essere comunque accolto positivamente perché va a ricadere in una congiuntura economica che non è brillante, di ristagno. Quindi rappresenta una rete di sostegno più robusta di quanto avvenisse nel passato.

Possiamo sperare in una ripresa dell’export?

Non ci sono grandi spazi di manovra per la Germania, a maggior ragione non li vedo per noi. Certo, esportiamo non poco negli Stati Uniti, ma in questo caso la geopolitica gioca un ruolo importante. Non riesco però a vedere al momento segnali esterni particolarmente favorevoli. Non possiamo sperare molto negli investimenti, perché se non c’è crescita interna i privati non hanno stimoli a farne. Rimane l’azione pubblica in investimenti. E c’è da dire che si sarebbero evitati molti problemi se si fosse puntato fin dall’inizio sugli investimenti pubblici, che avrebbero potuto dare una spinta di crescita vera.

Difficile quindi arrivare all’1% di crescita ipotizzato dal Governo…

Il 2019 potrebbe essere un anno con un segno positivo, ma anche se ci fosse una crescita del Pil dell’1% la gente, giustamente, non se ne accorgerebbe neanche. Il punto vero è se le politiche di Lega e M5s possono andare incontro a due categorie, famiglie a basso reddito e giovani, che spesso si sovrappongono. Se questo accadrà, avremo un risultato positivo. Bisogna prendere atto che l’economia non si è indebolita nel trimestre passato, ma da almeno un anno prima. Quindi c’è un’allerta da lanciare ai decisori politici affinché tutte le risorse mobilitabili vengano utilizzate adesso, perché dopo rischia di diventare sia troppo tardi che troppo poco. Ci sono poi due rischi da non sottovalutare.

Quali?

Essendo noi così “rasoterra” come crescita, se quanto meno come spero abbiamo toccato il fondo, non possiamo non notare che ci troviamo in una situazione in cui conviene investire. Se non si investe dall’interno lo si fa dall’estero, dove la quantità di capitali è nettamente maggiore. Quel che voglio dire è che, come già avvenuto in passato, ci sono molte imprese sane che possono essere acquisite a prezzi favorevoli dall’esterno. Inoltre, al Sud così com’è la situazione rischia di poter non essere più sotto controllo. In Francia per molto meno guardi cosa sta succedendo.

Professore, anche l’Eurostat ha comunicato i dati economici del quarto trimestre 2018 e non si può non notare che se nell’Ue a 28 l’anno si chiude con un Pil a +1,5%, nell’Eurozona si arriva invece a +1,2%. Inoltre, la disoccupazione nell’Ue a 28 a dicembre si è attestata al 6,6%, mentre nell’Eurozona al 7,9%.

Non vorrei essere equivocato, ma questi dati ci dicono chi è fuori dall’euro cresce di più e ciò avviene per diversi motivi. I principali sono che spesso si tratta di paesi, salvo quelli scandinavi, che partono dal basso, quindi hanno tassi di crescita elevati. Come i bambini che crescono più velocemente quando sono piccoli. Inoltre, sono molto agganciati, nel bene e nel male, all’economia tedesca. Per questo i tassi di crescita di Polonia, Repubblica Ceca e Romania sono strabilianti se raffrontati con i nostri. Tutto questo ci dice che la svalutazione interna e il consolidamento fiscale, cioè i due pilastri dell’austerity, non sono l’equivalente di un’economia aperta per ogni singolo Paese fintanto che non ci sarà una vera integrazione dentro l’Eurozona.

(Lorenzo Torrisi)