Il calo dello 0,2% del Pil italiano nel quarto trimestre del 2018 è stato peggiore delle attese che si limitavano a un -0,1%; la conclusione è che le stime di crescita per il 2019 diventano ancora più complicate. Nel rimpallo delle responsabilità tra Governo e opposizione si rischiano di perdere i riferimenti. Le attese di rallentamento sono cominciate già nel primo trimestre del 2018 quando si registravano le tensioni sui rapporti commerciali tra Cina e Stati Uniti e i dati sulla crescita globale. L’Italia soffre prima e più degli altri Paesi europei per diverse ragioni; in questa analisi non dimentichiamo che l’eurozona in quanto tale è e rimane un modello economico “fondato” sulle esportazioni e che, per questo, nel suo insieme è particolarmente colpita dal rallentamento dei commerci globali non avendo né la spinta dei consumi americana, né quella, sintetizziamo in modo brutale, degli investimenti e dello Stato cinese.



L’industria italiana è integrata in quella europea con un rapporto stretto con l’industria tedesca di cui spesso è fornitrice. In una crisi soffrirà sempre e di più dei propri clienti. L’Italia è ancora alle prese con gli effetti di due crisi molto gravi, quella del 2008 con il fallimento di Lehman, e quella del 2011/2012 prima con la crisi del debito, lo “spread a 500”, e poi con l’applicazione dell’austerity. Infine, l’Italia soffre, ed è la “notizia” del quarto trimestre, per la particolare situazione in cui si trovano le sue banche. Le banche italiane sono state colpite duramente dalle due crisi perché hanno dovuto assorbire il costo delle sofferenze e l’aumento del debito italiano via crisi. L’Italia non ha potuto e voluto fare interventi di “sistema” sul suo sistema bancario che ha scaricato i costi della crisi riducendo i crediti alle imprese.



Di fronte al rallentamento economico e al rialzo dello spread di agosto/ottobre, le banche italiane hanno ridotto il credito alle imprese per “salvare” i bilanci e prepararsi agli effetti della crisi sulle sofferenze e sul debito statale e questo ovviamente si trasmette all’economia. Aggiungiamo il livello di scontro politico, un Governo che blocca per mesi infrastrutture già finanziate, e l’incertezza che lo scontro tra Italia ed Europa provoca, con l’inevitabile effetto sulla fiducia delle imprese, e abbiamo quello che è successo nel quarto trimestre.

È evidente a questo punto che è in atto un circolo vizioso che diventa particolarmente problematico all’interno dell’Europa, dei rapporti “politici” tra Paesi membri e delle sue regole. Chi scrive non crede che ci possa essere un economista serio e in buona fede a non accorgersi del circolo vizioso in atto e a non sostenere che serva un elemento esterno che lo possa spezzare o quanto meno attutire. Il circolo vizioso è quello descritto di rallentamento globale, restringimento del credito, salita dello spread che si ripercuote sull’economia specialmente se ha scommesso tutto o moltissimo sulle esportazioni. L’intervento “esterno” o lo stimolo è quello che si rende necessario in una situazione in cui le banche non possono, da sole, che fare quello che fanno con meno crediti e in cui per rispettare i vincoli europei si dovrebbe addirittura fare politiche pro-cicliche aumentando le tasse.



Ci sono spazi per fare riforme, tagliare con l’accetta la burocrazia, e razionalizzare la spesa, ma sono interventi complessi che non possono dare risposte nei tempi che oggi sarebbero necessari. La “polemica” tra Italia ed Europa in una fase come quella del 2018, in altre parole, è secondo noi inevitabile e salutare e anche se non avremo mai una controprova pensiamo che qualsiasi Governo serio, vista la gravità della situazione, avrebbe dovuto farla. Poi discutiamo pure di come sia stata fatta e per ottenere cosa.

Quello che però vorremmo non sfuggisse è il quadro europeo. I problemi dell’Italia di oggi non sono altro che il punto più evidente in cui si segnalano i problemi dell’Europa, come si vede dal rallentamento dell’economia tedesca. Qui non si tratta di rallegrarsi perché anche i tedeschi stanno male. Noi siamo dell’idea che quando il vicino o il concorrente o il cliente sta male tendenzialmente non c’è mai quasi niente da festeggiare, anzi è il momento in cui ci si deve preoccupare.

Siamo certi che non sia sfuggito quello che è successo mercoledì sera al cambio euro/dollaro dopo l’intervento del presidente della Fed. L’America oggi ha ogni interesse a indebolire il dollaro e se ci riesce, e le probabilità sono alte, per l’Europa tutta saranno dolori con un’ulteriore mazzata all’export europeo e al modello su cui è fondato. Se l’idea dell’”Europa” è tenere basso il cambio con la crisi della periferia siamo messi male; anzi molto male. L’euro è fatto in modo tale che i mali dell’Italia possono diventare il bene della Germania, come nel 2011, via svalutazione dell’euro, dato che non ci sono meccanismi di redistribuzione o solidarietà nemmeno nel caso dello “spread”.

Andiamo a ripassare l’andamento del cambio euro dollaro dall’estate del 2011, la crisi sovrana italiana, a quella del 2012. Da 1,45 a 1,2. Mentre l’Italia faceva l’austerity, ogni impresa europea esportatrice guadagnava il 20% sulle esportazioni. Hanno pagato gli italiani, ma i benefici sono stati “più diffusi” all’interno dell’Europa; questo è il frutto dell’incompiutezza, a questo punto voluta, dell’euro e della nostra ottusità. Se vogliamo ripeterci a uso e consumo dell’industria europea, sempre più solo tedesca, siamo sulla buona strada. Tanto più che l’euro è il volano di operazioni societarie intraeuropee a rischio zero.

La sfida portata all’Europa e al suo modello in questa fase rischia di diventare un momento decisivo. Se l’Europa non cambia, se non cambia il suo modello economico e la dinamica dei rapporti interni così come si sono cristallizzati negli ultimi 30 anni, la crisi farà molto male anche in termini di tenuta sociale. Non diciamo questo all’interno di una dialettica “sovranisti-europeisti” o “populisti-élite”, ma nell’ottica dello sviluppo economico di un continente che volente o nolente oggi è legato da una valuta comune e da regole comuni. È un modello che, ci sembra, la rende nana politicamente e ne mette in dubbio lo sviluppo economico; siamo ricattabili in quanto così tanto dipendenti dalle esportazioni, senza capacità di proporre investimenti “pubblici” o senza la possibilità di una spinta autonoma e per la “cattiveria”, scusateci il termine così poco tecnico, del dibattito interno completamente sbilanciato a favore dei “creditori”.

Non è un caso che la leadership tecnologica nei settori chiave sia una partita a due tra Cina e Stati Uniti in cui l’Europa non c’è. È colpa degli italiani? Forse. Ma secondo noi è il modello costruito dai tedeschi senza opposizioni, e con la nostra complicità colpevole, ad averla condannata a essere il nano che è; oggi politicamente e domani economicamente con l’unica esclusione di chi riesce a gestire la costruzione, ma sostanzialmente come un parassita.