L’economia non va bene. Non solo in Italia dove il peggioramento della situazione è inversamente proporzionale all’irresponsabile ottimismo di facciata del Governo. Non solo in Europa, dove la profondità della crisi del 2018 è stata costantemente sottovalutata dai mercati, dai governi e dalla Bce e che ora rischia di dover fare i conti con i dazi Usa sull’importazione di auto dal Vecchio Continente: un colpo potenzialmente durissimo per aziende integrate nella filiera globale. Ne sa già qualcosa la Gran Bretagna che sta smantellando, via Brexit, l’industria dell’auto creata da Margaret Thatcher convincendo i costruttori stranieri, giapponesi in testa, a fare del Regno Unito la testa di ponte per la conquista d’Europa. La ritirata di Honda da Swindon è solo il secondo episodio, dopo la decisione di Nissan di produrre il nuovo Suv in Giappone e non a Sunderland (lo stabilimento più importante e moderno), di una ritirata sempre più veloce, scandita dalla chiusura di fornitori e partner locali. Il passaggio dai motori a combustione all’auto elettrica, del resto, costringe a ripensare il settore dalle fondamenta. Se si resta indietro adesso sarà dura recuperare in seguito.
L’economia non va bene nemmeno in Cina, che nell’ultimo anno ha fatto ricorso a ogni forma di stimolo (a partire dal debito) per reggere alla pressione di Washington che non riguarda più solo i dazi, ma si estende a ogni aspetto della realtà commerciale, tecnologica e strategica. Qualsiasi accordo, fanno sapere da Pechino, non deve ledere la legittima aspirazione del Paese a un futuro migliore. Alla Cina, da un quarto di secolo la fabbrica del mondo, è stato chiesto di rimettere in discussione l’intero suo modello di business, il suo posizionamento tecnologico (vedi l’offensiva contro Huawei) e militare nel mondo, gli obiettivi della Via della Seta fino alla sopravvivenza della sua classe dirigente. Per tenere in piedi l’economia si è usato di tutto, senza rinunciare a ricorrere di nuovo a strumenti sempre più rischiosi come il debito. È probabile che presto si raggiungerà un accordo di massima con l’America, ma ci vorrà tempo per rivedere un ciclo virtuoso.
Non brilla nemmeno l’America. Anzi, esauriti gli effetti degli stimoli fiscali, comincia a mancare l’ossigeno per alimentare la domanda. Sintomatico l‘indice Fed di Filadelfia, che monitora l’andamento del settore manifatturiero di New Jersey, Delaware e Pennsylvania di febbraio: risulta in calo a -4,1 punti, ben al di sotto del dato precedente (+17) e delle attese (+14).
Aria di recessione? No, anche perché la Federal Reserve è già in preallarme per reflazionare l’economia in sintonia con le altre banche centrali a partire dalla Bce: il mandato di Mario Draghi, in scadenza a fine 2019, non coinciderà con il primo rialzo dei tassi, come si prevedeva solo tre mesi fa. C’è da chiedersi però se l’azione delle banche centrali sarà sufficiente a rilanciare la crescita: troppi ostacoli, al di là dei dazi, minacciano la ripresa a danno soprattutto delle economie finora più aperte.
È questa la cornice in cui l’Italia comincia una nuova serie di esami, a partire dal rating di Fitch. Non c’è stato il temuto downgrade, ma potrebbe comunque arrivare una temporanea risalita dello spread a 300 punti, accelerando però i tempi dei prestiti Tltro. Insomma, cambierà ben poco. In peggio, probabilmente. Ma non ce ne cureremo più di tanto, immersi come siamo nella logica del rinvio che non si esaurirà di sicuro con le elezioni del 26 maggio. Ma gli italiani, troppo impegnati con i moduli del reddito di cittadinanza e con le pratiche connesse (cambi di residenza, separazioni e divorzi) per aver diritto a un posto sul sofà, non se ne curano. In estate, poi, a tutti verranno regalati paletta e secchiello per farsi la propria Tav sulla spiaggia.