La Commissione europea ha tagliato ieri le previsioni sulla crescita italiana per il 2019 al +0,2%, stimando per il 2020 un +0,8%. I ribassi sono stati motivati da Bruxelles con un rallentamento maggiore rispetto a quanto previsto alla fine dello scorso anno, accentuato sia dall’incertezza globale e interna che dalle previsioni di investimento delle imprese in calo. Ancora, secondo Bruxelles, il rallentamento della nostra economia nell’ultima parte del 2018, piuttosto che per un minor dinamismo del commercio mondiale, è da attribuire a una domanda interna debole, anche per via dell’incertezza collegata alla manovra del Governo. Luigi Campiglio, professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano, preferisce concentrarsi più sui dati dell’economia che non sui commenti della Commissione.
Che quadro le sembra emergere dai dati?
L’Italia è tecnicamente in recessione e l’Istat, con il comunicato relativo alla stima preliminare del Pil del quarto trimestre 2018, ci ha anche detto che la variazione acquisita è negativa dello 0,2%. Questo vuole dire questo dato? È il risultato di un calcolo basato su numeri indice. Prendendo quelli con base 2010 uguale a 100, se l’indice del Pil che nell’ultimo trimestre era pari a 100,5 rimarrà a tale livello per tutto il 2019, e quindi il tasso di crescita congiunturale di ogni trimestre sarà pari a zero, allora confrontando la media dei quattro trimestri del 2019 con la media dei quattro trimestri 2018 il risultato sarà -0,2%. Il che ci deve preoccupare nell’immediato.
Perché?
Perché se nel primo trimestre dovesse esserci ancora un dato negativo sul Pil, l’indice di cui sopra scenderebbe e quindi la variazione acquisita in ragione d’anno scenderebbe sotto il -0,2%. In buona sostanza, prima riusciamo a superare l’ennesimo punto negativo, meglio è. Questo è importante, perché se confrontiamo l’ultimo trimestre disponibile in Italia, con base 2010 uguale a 100, abbiamo un indice a 100,5. Siamo cresciuti cioè dello 0,5% dal 2010. Questo rispetto alla Germania che nel terzo trimestre era arrivata a un +15,7%, alla Spagna che nel quarto trimestre è giunta a +9% e alla Francia che ha fatto registrare un +11%, sempre rispetto al 2010. Dunque noi siamo arretrati notevolmente, non da adesso, ma dal 2010 a oggi, rispetto ai paesi europei più grandi con cui ci possiamo ragionevolmente confrontare.
Crede che il primo trimestre del 2019 possa far registrare un altro dato negativo?
Ritengo che per la Germania non sia ancora arrivato il contraccolpo più forte, perché la Cina cresce a tassi meno elevati di prima e sono sotto pressione quei beni grazie ai quali l’economia tedesca ha visto esplodere le proprie esportazioni, l’automotive in particolare. Quindi è possibile che ci sia un rallentamento tedesco nel primo trimestre. E questo di certo non ci aiuta, vista i collegamenti della nostra industri manifatturiera con quella della Germania. Alla luce dei dati di confronto con il 2010 di cui ho parlato, esiste per noi il rischio di entrare in un circolo vizioso senza uscita.
È possibile evitare questo circolo vizioso?
Ci possono aiutare anche eventi esogeni. Per esempio, se si dicesse che la Brexit viene rimessa nel cassetto probabilmente avremmo un grande beneficio a livello europeo e anche italiano, perché l’interscambio non è da sottovalutare, in modo diretto e indiretto, attraverso Francia e Germania. Tuttavia per tornare a crescere e recuperare terreno bisogna attivare con una politica interna di elevata urgenza almeno due strumenti.
Quali?
Noi non abbiamo per il momento degli stabilizzatori automatici, una categoria di intervento economico pubblico che agisce in condizioni negative della dinamica economica complessiva, quindi se il Pil scende, per poi “ritirarsi” quando la situazione migliora. Con questo tipo di strumento si aiuta il Paese, soprattutto chi è in condizioni economiche più difficili. Lo stabilizzatore automatico per eccellenza è l’indennità di disoccupazione. Immagino che in Germania ma non solo gli stabilizzatori automatici siano già all’opera. Considerando che questo genere di strumento agisce quando il Pil scende e poi si contrae quando il Pil risale, la spesa sull’arco di un anno, un anno mezzo è a saldo netto zero.
E qual è il secondo strumento che occorre mettere in campo?
Un’attivazione urgente e immediata di tutto ciò che è sbloccabile in termini di investimenti pubblici. Dobbiamo farlo non nel secondo semestre, ma subito. Così c’è qualche probabilità che nella seconda metà dell’anno vadano a regime. Chi dice che questi sono pannicelli caldi dovrebbe riflettere sul fatto che la spesa pubblica per investimenti è caduta in modo drammatico negli ultimi dieci anni, del 30-40%. Ma non solo: gli investimenti netti, al netto quindi degli ammortamenti, sono negativi. Questo significa che la base produttiva del Paese si sta restringendo, stiamo diventando più piccoli. Abbiamo perciò bisogno di un big push, una grande spinta in questo momento a base di investimenti pubblici, che tra l’altro sono in grado di cambiare in positivo il clima di fiducia del Paese, che invece ora rischia di diminuire.
Gli investimenti pubblici aumentano però il deficit e quindi il debito…
Non ho i dati per poter dire se lo sblocco di investimenti pubblici possa produrre un peggioramento del debito, ma voglio sottolineare che in una situazione di questo genere chi ci guarda dall’estero è molto influenzato da quello che facciamo per creare le condizioni di una grande spinta. Se viene percepito che in modo unitario, per nelle grandi diversità interne del Paese, c’è una grande spinta, si crea un effetto positivo sui mercati finanziari, anche sulla percezione dei nostri titoli di stato.
Torniamo alla prima tipologia di strumenti da mettere in campo: il reddito di cittadinanza è uno stabilizzatore automatico?
No, perché è un provvedimento strutturale. L’importante è che, come ci siamo detti altre volte, sia realizzato bene.
Qual è allora uno stabilizzatore automatico?
Tutto ciò che è spesa discrezionale e temporanea e che ha a che fare con il tenore di vita di persone che possono contribuire alla crescita del Pil e dell’economia, ma non sono in grado di farlo a causa della crisi. Il sostegno a queste persone deve essere variabile, cioè deve essere dato fintanto che la situazione non migliora. Le forme in cui tutto ciò può essere declinato sono numerose. Lo strumento principe a livello centrale è quello dell’indennità di disoccupazione, ma la politica economica fatta solo dal centro rischia di non essere pienamente efficace. Quello che va fatto è mobilitare anche i corpi intermedi: tutto ciò che sta tra lo Stato sociale, l’individuo e la famiglia e che può avere un ruolo positivo va fortemente valorizzato, specie nelle zone del Paese dove la crisi morde di più. È importante che vengano promosse forme di solidarietà a livello territoriale perché sono quelle che tengono insieme, tengono uniti. Il rischio infatti di un eccesso di individualizzazione c’è e questo aspetto sociale non è irrilevante per le prospettive di crescita.
Quali sono invece le cause del nostro arretramento reso evidente dal confronto della crescita registrata dal 2010 a oggi?
È un discorso lungo, prima della causa che sto per dire viene altro, ma se uno va indietro come i gamberi alla fine si ritrova con il fatto che la classe imprenditoriale si è indebolita in numero e in capacità di promozione economica. Questo è un dato che va registrato con preoccupazione. Le attività finanziarie che potrebbero mettere in movimento il Paese ci sono, ma prendono altre direzioni che non sono la creazione di imprese a nel Paese. Inoltre, gli investitori esteri sono anche frenati dalla mancanza di certezza del diritto. Non è comunque un problema di capitali, quel che manca sono le idee di cui imprenditori alla Mattei o alla Olivetti sono stati portatori. Questa è una dimensione che abbiamo perso sia nel privato che nel pubblico.
(Lorenzo Torrisi)