«Non c’è un rischio Italia. In questo momento c’è un rischio recessione, come ha detto anche il presidente della Bce Mario Draghi, in Germania e in Italia. È evidente che il rallentamento dell’economia tedesca, a cui quella italiana è così legata, influisce anche su di noi, anche se i giornali hanno parlato solo di un rischio Italia». Appare alquanto veritiera – e non profetica – l’affermazione rilasciata dal ministro dell’Economia Giovanni Tria nel corso del convegno organizzato dall’Aspen Institute a inizio marzo. A “certificare” questa considerazione è arrivato il dato diffuso venerdì da IHS Markit: l’indice Pmi manifatturiero tedesco era previsto in rialzo a 48 mentre invece ha registrato un significativo calo a 44,7 dal precedente 47,6 di febbraio. Una variazione negativa che ha comportato una generalizzata flessione sui principali listini azionari. A marzo, lo stesso indice composito tedesco, ha subìto un arretramento a 51,5 contro il 52,8 del mese precedente così come il parametro riconducibile ai servizi vede il proprio valore attestarsi a 54,9 da 55,3. Da sottolineare come il livello raggiunto dall’indice manifatturiero corrisponda al minimo da oltre sei anni.



La storica locomotiva tedesca sembra rallentare la propria corsa. Una corsa che sembra ormai rappresentare non più l’allungo solitario di un Paese in fuga rispetto ai restanti rivali (gli altri paesi dell’Europa) che invece arrancano, ma la Germania, questa Germania, appare invece avere più le sembianze di un corridore stremato e prossimo al fotofinish di un traguardo che separa il suo stato di economia forte (quella del passato) da quello di economia debole e giunta all’inevitabile fase recessiva (quella del presente). A confermare questa ipotesi è l’economista di IHS Markit Phil Smith che dichiara espressamente come «il rallentamento sta diventando più evidente in Germania, causato dall’incertezza legata alla Brexit e dalle tensioni tra Cina e Stati Uniti, dall’andamento negativo del settore auto e dalla sofferenza generalizzata della domanda globale».



Se la Germania era considerata il verosimile benchmark d’Europa, ne consegue che, al pari della stessa nazione tedesca, le difficoltà evidenziate da quest’ultima, dovrebbero trovare concreta certezza anche sui valori dell’intero aggregato europeo. E a tale deduzione è giunta – inesorabile – venerdì la conferma attraverso la diffusione del medesimo dato sull’indice Pmi manifatturiero dell’Eurozona: 47,6 a marzo da 52,8 dello scorso febbraio. Un valore decisamente inferiore ed ancor più significativo se paragonato all’atteso 49,5. Anche per l’Eurozona si registra un rallentamento pari al minimo da sei anni.



Chris Williamson – Chief Business Economist di IHS Markit – ha commentato come «l’economia dell’Eurozona chiude il primo trimestre con il Pmi proiettato a segnare uno dei valori più bassi dal 2014. Il Pil del primo trimestre è probabilmente aumentato di un modesto 0,2%. La ripresa di febbraio, dopo la protesta dei gilet gialli, ha già perso il suo slancio e desta preoccupazione la condizione del settore manifatturiero». Una nota che deve far riflettere sia sul piano governativo dei singoli paesi, sia sull’azione economica intrapresa da quest’ultimi. E proprio sul fronte economico – lo stesso Williamson – continua la propria analisi: «Gli indici che anticipano le tendenze (ottimismo e lavoro inevaso) suggeriscono che nel secondo trimestre la crescita potrebbe indebolirsi ancora. Un numero sempre più elevato di aziende sta cambiando approccio in merito alle assunzioni e probabilmente sta riconsiderando i piani di investimento. Ulteriori perdite di vigore del Pil durante il secondo trimestre solleverebbero dubbi sulla reale capacità di una crescita economica superiore all’1% nel 2019».

Uno scenario che, se corredato da un’incertezza politica a fronte dell’esito dalle prossime elezioni politiche europee, lascerebbe scoperto il fianco a inevitabili conseguenze negative; le agenzie di rating – di fatto – hanno già preannunciato possibili sviluppi e la stessa Fitch – nei confronti della nostra Italia – si è già portata avanti con i propri compiti rivedendo (al ribasso) la stima del Pil a +0,1% per il 2019 (rispetto al precedente +1,1% di tre mesi fa) e un “modesto” +0,5% per il 2020.

Il prossimo trimestre sarà decisivo per chi sarà in corsa: per alcuni sarà necessario oltrepassare il traguardo accontentandosi di un mero piazzamento sul podio, per altri (in molti), conterà l’aver solo partecipato.