Giornata da brividi per le prospettive dell’economia italiana. Il colpo più duro è arrivato da Confindustria, che ha tagliato le stime di crescita 2019 a zero: “L’Italia è ferma”, la sentenza del Centro studi di Viale dell’Astronomia, con lavoro e consumi al palo, investimenti, pubblici e privati, di nuovo in territorio negativo e “conti pubblici già ipotecati da scenari catastrofici”. Anche il governatore della Banca centrale europea, Mario Draghi, ha ammonito che “l’economia sta rallentando”, mentre il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, ha invocato “riforme strutturali” perché non basta “il sollievo di misure congiunturali”. Infine, è toccato all’Istat evidenziare con preoccupazione che “la fiducia delle famiglie è in calo e la manifattura è ai minimi degli ultimi quattro anni”. Una grandinata di dati negativi che non ha turbato più di tanto il governo giallo-verde: per Tria “il deficit è sotto controllo” e per Salvini “i gufi saranno smentiti”.



“I dati del Centro studi Confindustria – osserva Amedeo Lepore, professore di Storia economica all’Università della Campania “Luigi Vanvitelli” – fanno riflettere per il loro peso. Non li guarderei, però, solo nella loro negatività. In una visione di rilancio dello spirito europeo e in un contesto euro-mediterraneo, se solo l’Italia provasse a svolgere un’azione attiva, anche nei confronti di Francia e Germania, penso che questa fase di grande difficoltà può diventare un’opportunità. Non intendo dire che occorra ripercorrere la strada della fondazione europea degli anni Cinquanta sic et simpliciter, ma che bisogna riscoprire uno spirito e una consapevolezza del ruolo dell’Europa nella competizione globale. Senza questo spirito, riformando e non smembrando l’Europa, non possiamo affrontare le grandi sfide, saremmo condannati all’irrilevanza: se l’Europa si indebolisce, l’Italia si indebolisce ancor di più”.



Intanto, in base ai dati del CsC, l’Italia sembra essersi fermata. E’ davvero così?

Abbiamo avuto un 2018 a due velocità: sei mesi positivi e i sei successivi negativi, che hanno portato a un brusco rallentamento del Pil. L’occupazione nel primo semestre è cresciuta di quasi 200mila unità e in quello successivo c’è stato un calo di 84mila unità, mentre sul fronte della produzione industriale va sottolineato il tracollo del quarto trimestre 2018, quando, dopo 17 trimestri positivi, c’è stato un -1%, che ha segnato negativamente l’andamento dell’anno, chiuso con un -2,3%.



Quali sono i motivi di questo cambio di passo negativo?

Due i fattori sfavorevoli: da un lato, lo spread salito in media intorno ai 300 punti base, con un rialzo di un punto percentuale dei rendimenti sovrani, a testimonianza di un maggior rischio percepito dagli investitori in titoli pubblici italiani; dall’altro, un calo di fiducia maggiore tra le imprese che tra le famiglie.

Il mercato domestico non è stato certo brillante, vero?

Pesa, innanzitutto, la debolezza dei consumi, che rappresentano il 60% del Pil e che anche in questo 2019 continuano a mantenersi fiacchi, anche se un piccolo effetto positivo dalle due misure economiche – reddito di cittadinanza e quota 100 – varate dal Governo dovrebbe farsi sentire, ma è controbilanciato dall’aspettativa da parte dei cittadini di maggiori tasse. In secondo luogo, la propensione al risparmio è aumentata, segno evidente che l’incertezza porta a risparmiare più che a consumare e a investire. Infine, l’occupazione, che è ferma. Tutti dati che non mostrano un’inversione di tendenza. Ma il vero elemento critico, a mio avviso, è un altro.

Immagino sia lo stallo degli investimenti…

Esatto. Il blocco degli investimenti privati è legato a diverse cause: sfiducia, incertezza sulla domanda, basso sostegno di alcune misure approvate per cercare di ridurre il peso fiscale sulle imprese, come la mini-Ires, incertezza su altre misure come il super-ammortamento, frenata nell’innovazione degli impianti e deterioramento del credito alle imprese. Basta ricordare un solo dato: nel 2016 e nel 2017 rispetto a investimenti pubblici previsti tra i 37 e i 38 miliardi, a consuntivo ne sono stati effettivamente realizzati solo 32-33. Ciò fa capire quanto sia importante che l’Italia possa accelerare la spesa effettiva.

Anche il contesto internazionale ha pesato?

In particolare non ha aiutato la frenata dell’economia tedesca, dove nella seconda metà del 2018 si è registrato un calo del 2% della produzione manifatturiera. E’ un dato da non trascurare, perché il 12,5% dell’export italiano è rivolto alla Germania e per più della metà delle regioni italiane l’export tedesco vale tra il 20% e il 40% del valore aggiunto. In più, oltre all’innalzamento dei dazi Usa, all’instabilità dei prezzi dell’energia, alla crisi dei Paesi emergenti, in primis Turchia e Argentina, e alla mancata attuazione delle riforme europee, sull’Italia ha pesato in misura significativa anche il veto sull’accordo con l’Iran sul nucleare, tenendo presente che nel campo energetico e non solo il 50% degli investimenti esteri in Iran ha proprio capitale italiano.

Nessun segnale positivo?

L’unico arriva dall’export, che è in crescita: +2,6% nel 2019 e nel 2020, grazie alla capacità delle imprese italiane di saper competere sui mercati internazionali.

In un quadro già fosco le previsioni sono addirittura buie?

Nel 2019 la crescita sarà zero, con un calo dello 0,9% in soli sei mesi, e per il 2020 sarà minima: solo +0,4%. Il Rapporto del CsC, poi, mette in guardia su una serie di fattori da tenere sotto stretta osservazione nel 2019: l’evoluzione politica dell’Europa, Brexit ed elezioni Europee, l’ipotesi di un’Eurozona che vada in recessione, gli attacchi cibernetici, il rapporto con la Cina e la Nuova Via della seta, le eventuali difficoltà della locomotiva Usa e i rapporti di competizione strategica tra Stati Uniti, Cina e Russia.

Per Confindustria sono già stati “ipotecati i conti pubblici e saranno dolori”. Perché?

A colpire è il dato dell’indebitamento pubblico. Il rapporto deficit/Pil è previsto in aumento al 2,6%. Se invece non scattassero gli aumenti dell’Iva, si arriverebbe al 3,5% con effetti recessivi. E’ un nodo che va assolutamente affrontato con il Def, perché da qui dipende la possibilità di poter varare manovre più favorevoli alla crescita. Non va infatti dimenticato che continua a sussistere il gap di crescita, strutturale, con le altre economie europee; anzi, il divario potrebbe addirittura allargarsi.

Sul fronte degli investimenti il governo mostra un po’ la corda, come si è visto con il decreto sblocca-cantieri. Come si può invertire la rotta?

Vorrei far mio il richiamo, assai pertinente, del presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, secondo il quale bisogna riprendere lo spirito con cui, all’inizio del dopoguerra, l’Italia fu capace di costruire, grazie all’impegno delle sue forze produttive, il miracolo economico. Per reagire al rallentamento, se non c’è un impulso fortissimo delle forze produttive e non si mette al centro un Patto per lo sviluppo e per l’occupazione, è difficile riprendere la strada della ripresa.

Boccia ha fatto anche riferimento alla dotazione infrastrutturale transnazionale, che per noi vuol dire soprattutto Tav…

Se l’asse delle infrastrutture, della logistica e dei collegamenti internazionali diventasse fondamentale per lo sviluppo dell’Europa, questo potrebbe significare che o attraverso Eurobond o attraverso un maggiore deficit orientato non solo ai saldi contabili ma alle politiche di investimento si può ribaltare una politica solamente restrittiva, attenta alla stabilità ma non alla crescita.

Sulle ricette per la crescita Lega e M5s sembrano divisi e il governo si trova in una situazione di stallo, che potrebbe durare fino alle Europee di giugno. Con questo immobilismo non rischiamo di pagare un prezzo salatissimo?

Lo ripeto: bisogna puntare con forza sulle infrastrutture strategiche, che sono prevalentemente compito dello Stato e a favore delle quali potremmo anche utilizzare meglio il piano Juncker, e sugli investimenti produttivi. Se non si sbloccano rapidamente, non si va da nessuna parte. Tentennamenti, continue sospensioni e attese non favoriscono la credibilità di un Paese: bisogna decidere. I tempi non sono una variabile indifferente. Se nel 2018 siamo passati da una situazione di ripresa iniziale a una brusca frenata da un semestre all’altro, questo dimostra che i tempi si possono utilizzare bene in misura esattamente contraria a quello che è successo l’anno scorso. Si può cambiare la direzione di marcia, anche in un tempo breve. Però bisogna definire una direzione di marcia.

Ieri c’è stato un vertice sul decreto crescita, che dovrebbe approdare nei prossimi giorni sul tavolo del Consiglio dei ministri. Da questo decreto, che prevede misure legate all’innovazione, alla Sabatini e all’economia circolare, dovrebbe derivare un beneficio alla crescita pari a un punto decimale. Non è un po’ troppo poco?

Rispetto a un’impostazione che è stata prevalentemente di breve termine e rivolta alla crescita della domanda in tempi immediati, penso che il cambiamento d’impostazione sia già un fatto positivo. Il problema è che si deve lanciare il cuore oltre l’ostacolo, non bastano gli aggiustamenti. Ok al super-ammortamento o al rilancio della Sabatini, anche l’economia circolare va bene, ma non in chiave di sola sostenibilità, bensì agganciata a Industria 4.0. La bioeconomia non è solo riutilizzo degli scarti, ma riorganizzazione dei processi produttivi attraverso nuove tecnologie e l’ideazione di nuovi prodotti che siano in grado di ridurre al minimo gli sprechi. Va cambiato, cioè, il modello produttivo e questo significa fare lo sforzo massimo per sostenere ingenti investimenti, attraverso l’iniziativa pubblica, che a sua volta può stimolare gli investimenti privati.

Sono misure da inserire subito nel Def?

Quanto prima le idee appaiono chiare, tanto più siamo credibili a livello internazionale.

Ma dove si possono trovare le risorse in un quadro di conti pubblici in forte deterioramento?

Noi siamo i meno reattivi rispetto a questa difficile congiuntura in Europa. La credibilità è dire parole chiare: produzione, investimenti, occupazione devono diventare le voci su cui puntare. Se ci devono essere dei cambiamenti nelle politiche europee, è opportuno che si discuta di un intervento comune, anche dopo la fine della presidenza Draghi, per capire quali politiche monetarie, quali politiche di bilancio, quali politiche fiscali a livello Ue si possono adottare. Non è un tabù discutere di Eurobond o di finanziamento di politiche di crescita in deficit, ovviamente pensate non in contrapposizione all’Europa, ma svolte con gli altri Paesi, perché il rallentamento riguarda anche Germania, Francia e Inghilterra, Bisogna riprendere lo spirito della fondazione e integrazione europea, trovando il coraggio di fare riforme profonde, ragionando di strategie, finalità e obiettivi. Non si può procedere con le stesse ricette di questi anni.

Confindustria ha anche delineato alcuni scenari geo-economici. Cosa emerge?

Emerge una forte interdipendenza, dai legami finanziari all’interscambio commerciale, con Stati Uniti, Francia, Germania e Regno Unito. Solo sul versante energetico abbiamo un rapporto con la Russia e solo nelle dinamiche di crescita del mercato con la Cina.

Cosa se ne deduce?

Nel ribadire l’importanza della collocazione euro-atlantica dell’Italia, si apre una riflessione sulla competizione globale. A mio avviso, se nelle politiche di sviluppo gli investimenti sono fondamentali, per non soccombere nella competizione globale occorrerebbe, anziché una competizione interna tra Stati, una competizione tra l’Europa e i giganti Usa, Cina e Russia, che sono in profonda trasformazione. Altrimenti si rischia l’indebolimento dell’Europa.

Su quali terreni si gioca questa competizione globale?

Alcune preoccupazioni, in particolare sulla potenza cibernetica russa e sulla gestione di intelligenza artificiale e reti telematiche della Cina, andrebbero tenute in considerazione: una cosa è competere a livello europeo, altra è competere a livello bilaterale dei singoli Stati. Il tema vero non è la protezione o meno di carattere commerciale, ma la competizione tecnologica, per la sicurezza, per l’innovazione. Sfide che non si vincono da soli.

(Marco Biscella)