Lo Stato Sociale rappresenta ormai un elemento costitutivo degli Stati moderni e delle specificità proprie di ciascun Paese: è definito dal livello e dalla struttura della spesa, nonché dalla sua relazione con la crescita e lo sviluppo. Lo Stato Sociale interagisce con la crescita economica e quindi non è sempre facile distinguere il nesso di causalità: se invece il rapporto è fra Stato Sociale e sviluppo economico, inclusivo della dimensione sulla qualità del vivere e la sostenibilità, il nesso causale dallo Stato Sociale allo sviluppo umano è molto più evidente.



Negli Stati Uniti lo Stato Sociale è denominato come “rete di sicurezza” e “sicurezza sociale”, in Europa come “Welfare State” o Stato Sociale. Ho convenzionalmente definito come Stato Minimale le funzioni essenziali per la vita di uno Stato, come la sicurezza interna, la difesa esterna, la tutela del territorio, l’amministrazione della giustizia, e più in generale quelle funzioni in cui si esercita il potere statuale delle moderne società democratiche. Lo Stato Sociale copre invece quelle aree della vita sociale in cui il meccanismo di mercato è inesistente perché non esistono mercati, come nel caso dell’assicurazione contro la disoccupazione o delle istituzioni sociali generatrici di forti esternalità positive come la famiglia, o affianca il mercato nel garantire il trasferimento di risorse nel tempo, come nel caso delle pensioni.



Così come lo Stato Minimale esercita il monopolio della forza per rispondere alla domanda di sicurezza e giustizia dei cittadini, lo Stato Sociale modifica la distribuzione primaria del reddito generata dal mercato, per rispondere alla domanda di equità e stabilità di vita dei cittadini che condividono un comune linguaggio di reciprocità e responsabilità. Lo Stato Minimale e lo Stato Sociale ricompongono perciò il tessuto di una comunità che si fa Stato.

Lo Stato Sociale ha una storia che è parte costitutiva degli Stati democratici contemporanei e che si muove nel tempo per gradini: l’inizio dello Stato Sociale moderno viene di regola associato alla questione operaia di fine ‘800, e all’effetto di contagio europeo delle riforme di Bismarck e dell’Enciclica “Rerum Novarum”, si intreccia con la progressiva diffusione del suffragio agli uomini e poi alle donne, sulla base del principio egualitario di una-testa-un-voto, si amplia negli anni ’30 con le riforme del New Deal di Roosevelt, si evolve nel Regno Unito con la nuova prospettiva di Stato e comunità proposta da William Beveridge nel 1944 e apre così un ulteriore spazio di diffusione dal Regno Unito agli altri paesi europei, c’è poi il grande cambiamento negli Stati Uniti, nel 1964, con il progetto di “Grande Società”, la “Guerra alla povertà” e i nuovi programmi sanitari per anziani, bambini e famiglie a basso reddito, come risposta agli squilibri sociali degli anni ’70.



Lo Stato Sociale ha quindi una storia impossibile da ignorare: è una lingua viva, non diversa da quella con cui intessiamo le nostre relazioni sociali e facciamo comunità, le sue categorie economiche si evolvono nel tempo e come accade per una lingua viva la realtà anticipa le codificazioni legislative. Lo Stato Sociale si evolve perché la società cambia, a volte rapidamente: in una moderna democrazia uno Stato Sociale efficiente ed efficace non è un “lusso”, definito come tecnicamente l’offerta di beni e servizi di fronte a una domanda con un’elasticità reddito superiore a 1, ma è una necessità. È questo il caso, ad esempio, della spesa per l’istruzione rispetto a cui economisti e politici manifestano una valutazione ambivalente: può accadere che il medesimo economista o politico che suggerisce una riduzione della spesa pubblica per l’istruzione sia il medesimo che teorizza l’importanza del capitale umano per la crescita economica. È chiaro che le due indicazioni non possono essere vere entrambe e se la decisione è una riduzione della spesa, per coerenza si dovrebbe almeno negare l’altra.

Si dimentica spesso che la spesa pubblica include due voci cruciali per la crescita: gli investimenti pubblici e gli investimenti in Ricerca e Sviluppo. Ridurre queste categorie di spese significa spingere l’economia in recessione e a una riduzione dello stock di capitale e di conoscenza. Per questi motivi i cambiamenti dello Stato Sociale richiedono un’analisi attenta e approfondita, accompagnata a un rafforzamento degli investimenti e della Ricerca nelle fasi di difficoltà economica, specialmente se prolungata, e non certo cambiamenti improvvisi, che possono generare permanenti squilibri economici e sociali.

La Grande Crisi del 2008, originata dagli Stati Uniti, ha colto l’Europa in mezzo al guado di un grande processo di trasformazione e la politica economica adottata a livello europeo si è rivelata inadeguata, erede di una visione economica del passato che ha solo reso più difficile e lungo il processo di ripresa. Con pragmatismo, gli Stati Uniti hanno subito messo in campo tutte le possibili misure fiscali e monetarie, avendo come obiettivo centrale l’uscita dalla crisi, e il risultato sono stati dieci anni di continua crescita, che si avvia oggi a essere il periodo più lungo di espansione dal Secondo dopoguerra.

Non altrettanto è avvenuto in Europa: la Germania è stato un Paese “fortunato”, nel senso che il suo enorme e qualificato potenziale produttivo ha trovato lo sbocco di una nuova frontiera economica con l’ingresso della Cina nel Wto dal 2002 in poi: la Germania era pronta al momento giusto per fornire ciò che quell’enorme mercato domandava. Da allora all’interno dell’Unione europea si è creata una catena del valore che ha come inizio e terminale la Germania, e nel mezzo il coinvolgimento dei paesi europei più vicini sul piano economico e geografico, come Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Romania, Bulgaria e l’industria manifatturiera del Nord Italia.

La seconda crisi europea del 2012-2013 è stata rapidamente superata dai paesi legati alla catena del valore europea che in questi ultimi due anni 2017-2018 hanno confermato e accentuato la loro dinamica produttiva, ma per l’Italia la seconda crisi sono stati anni che hanno sancito un tunnel di ulteriore stagnazione, oltre che, attualmente, una recessione tecnica. La politica di austerità si è sommata ai danni provocati dal 2008 e da allora il Paese ristagna nelle retrovie di una Europa molto più dinamica e con paesi in fortissima espansione: l’errore europeo e italiano è quello di utilizzare strumenti di analisi plausibili per un normale ciclo economico, ma non per una crisi strutturale decennale. Prendendo a prestito il titolo di un libro del passato, di Nino Andreatta, possiamo parlare di una “Cronaca di un economia bloccata 2008-2018”.

I tagli allo Stato Sociale sono stati il blocco, quasi impietoso, di qualunque prospettiva di crescita: fra il 2016 e il 2010 la spesa pubblica (cioè in termini reali) per la ricerca di base in Italia è stata di 5 miliardi in diminuzione del -10% (Germania 30 miliardi, +28%), la sanità è diminuita del -9% (Germania +15%), i servizi ospedalieri del -15% (Germania +12%), l’istruzione primaria del -9% (Germania +23%), l’istruzione secondaria del -13% (Germania +1%), l’istruzione terziaria del -19% (Germania +4%), i servizi di polizia del -13% (Germania +11%), gli investimenti pubblici del -30% (Germania +2%), gli investimenti pubblici in ricerca di base 0,4 miliardi (-7%) (Germania 13 miliardi e +30%): la spesa pro-capite reale per le pensioni di vecchiaia è scesa del -2% (Germania +9%). Una nota positiva è che la spesa pro-capite a prezzi costanti per famiglia e bambini in Italia era in aumento del +51% rispetto al 2010 per un valore totale pari a 30 miliardi nel 2016, essendo però basso il punto di partenza: ma questa allocazione non regge nuovamente il confronto con la Germania dove la corrispondente spesa totale è di 102 miliardi, e quella pro-capite a prezzi costanti è in aumento del +15,3%.

Il danno sul passato è purtroppo irreversibile perché non siamo di fronte a un ciclo economico “normale”, ma a una rottura sociale, una crisi strutturale senza precedenti: di qui occorre partire per ricostruire il Paese con una visione europea che sia di unità concreta e non di divergenza. L’Unione europea è composta da 28 Stati ed è comprensibilmente laborioso concordare una visione comune, ma è almeno necessario considerare il “fatto” che un tasso (ufficiale) di disoccupazione del 10-11% non è “naturale” e di equilibrio, ma esprime piuttosto la potenzialità inutilizzata del Paese, come l’emigrazione italiana di giovani all’estero dimostra.

L’autore sarà tra i relatori dell’incontro “Sotto il cielo d’Europa: sostenibilità del welfare, crisi economica e corpi intermedi” in programma questa sera alle 20:45 nell’ambito del ciclo di incontri organizzato in vista delle prossime elezioni europee da Centro Culturale di Milano, Compagnia delle Opere e Fondazione per la Sussidiarietà.