Una nuova stagione si aperta nei rapporti tra il Governo e il mondo delle imprese. Speriamo non sia tardi per raddrizzare la barca Italia e rimetterla sulla rotta giusta che è quella della crescita e della conseguente creazione di posti di lavoro. La realtà dei fatti e la crudezza dei numeri hanno infatti convinto presidente e vicepresidenti del Consiglio (non entrambi alla stessa maniera, però) che burlarsi dello spread elevato o del debito che cresce non porta bene al Paese.
L’encefalogramma del Pil è piatto e il premier Conte ha capito che se davvero vuole attivare l’indicatore che valuta l’impatto delle decisioni pubbliche sul benessere dei cittadini ha bisogno di risorse. Perché con le casse vuote e la prospettiva di una manovra correttiva anticipata o di una prossima Legge di bilancio lacrime e sangue l’unica cosa che potrà misurare sarà il malessere montante di una popolazione afflitta da tassi sempre più alti di disagio.
Dunque, l’economia va sostenuta e va reintrodotta la fiducia tra gli attori nazionali e internazionali interessati alla nostra bella Italia. Le imprese non sono quel mostro da combattere che in un primo tempo l’esecutivo giallo-verde aveva considerato. Piuttosto, e al contrario, sono l’unica vera risorsa di cui questo Paese dispone privo com’è di materie prime e fonti energetiche. La ricchezza di questa nazione, per parafrasare Adam Smith, proviene quasi interamente dalla manifattura. E non a caso siamo secondi in Europa nella categoria dopo la Germania.
Nel suo approccio sereno ma ancora timido l’Avvocato del Popolo ha voluto chiarire – nella sua apparizione al forum di San Patrignano – che il suo sostegno all’industria non è diretto a migliorare le condizioni di chi sta già bene, ma a sollevare quelle di chi oggi se la passa male. Se ha deciso, con il suo esecutivo, di modificare la classificazione degli imprenditori da nemici ad alleati non è certo per fare loro un regalo, ma per ridurre le disuguaglianze alla base della povertà diffusa.
Quindi, tutti o buona parte dei frutti che si riusciranno a raccogliere dovranno essere indirizzati verso i ceti sofferenti per la costruzione di una società più giusta e inclusiva. Ma gli stessi concetti sono stati espressi dal presidente di Confindustria fin dal suo insediamento quando ha chiarito di concepire l’associazione come ponte tra gli interessi delle imprese e quelli del Paese non essendo più gli industriali che rappresenta difensori d’interessi di parte ma attori della società.
I preconcetti che hanno segnato all’inizio della legislatura un solco profondo tra chi governa e chi produce, mettendo addirittura in discussione la legittimazione dei corpi intermedi a parlare per nome e per conto dei propri iscritti, sembrano svanire. E allo stesso tempo dovrebbero sfumare la preferenza per la decrescita (tutt’altro che felice per chi l’ha conosciuta) e l’avversione per gli investimenti strategici, grandi e piccoli, che preparano il futuro.
Certo, poi c’è la campagna per le elezioni europee che incombe. E la tentazione d’inseguire il consenso facile anziché le dure riforme si fa forte. Ma il risultato delle ormai tante consultazioni regionali sembra lanciare segnali che i partiti dovrebbero saper cogliere. Il tempo delle promesse e delle soluzioni presunte facili è finito. È venuto il momento delle soluzioni. Un vecchio saggio della Prima Repubblica che vive tutt’ora da protagonista avverte: la ricreazione è finita.