La settimana appena trascorsa porta in dote un’importante novità: il riconoscimento ufficiale da parte delle due forze di governo, Lega e M5s, dei cosiddetti corpi intermedi. Prima Matteo Salvini e poi Luigi Di Maio hanno infatti avvertito l’esigenza di riunire intorno ai tavoli dei rispettivi ministeri i responsabili delle associazioni imprenditoriali del Paese per avviare un confronto sulla manovra economica. Meglio tardi che mai. L’invito alla discussione giunge infatti a cavallo del passaggio della Legge di bilancio tra la Camera e il Senato. Vuol dire che un pezzo di strada è stato compiuto quasi al buio, ignorando la posizione di chi opera nell’economia reale e quindi con la possibilità d’infilarci in un vicolo cieco, ma vuole anche dire che siamo ancora in tempo a modificare il percorso e metterci nella carreggiata dello sviluppo.



Tutte le organizzazioni ascoltate – quindici Salvini, oltre trenta Di Maio – hanno infatti battuto con forza sui tasti della crescita e delle infrastrutture che ne rappresentano la condizione essenziale e irrinunciabile. Grandi e piccole imprese, costruttori, commercianti, artigiani, agricoltori, cooperatori si sono trovati d’accordo nell’indicare l’apertura dei cantieri come la chiave di volta per reagire alla crisi.



Partire con gli investimenti pubblici, dunque, e stimolare quelli privati sono le azioni fondamentali che il partito del Pil chiede alla politica di svolgere per garantire al Paese quella crescita – che l’esecutivo indica con ottimismo all’1,5% – indispensabile a far digerire all’Europa e ai mercati lo sforamento del deficit sia pure nella forma attenuata che il premier Giuseppe Conte sta cercando di accreditare a Bruxelles.

In cima alla scala delle priorità c’è senza dubbio il tentativo di evitare la procedura d’infrazione da parte dell’Ue. Un provvedimento che porterebbe con sé la perdita dei fondi di coesione – che soprattutto nel Mezzogiorno rappresentano le uniche risorse spendibili – e il rientro forzato del debito nella misura di un ventesimo l’anno per l’ammontare accumulato oltre la soglia consentita del 60%. L’Italia è al 130%. Lo scherzetto, si fa per dire, ci imporrebbe di fare risparmi per circa 15 miliardi l’anno. Una somma non indifferente se consideriamo che oggi la materia del contendere tra Roma e Bruxelles vale circa 7 miliardi: la distanza che passa tra il 2,4% del rapporto deficit/pil contenuto in manovra e il 2% richiesto dall’Unione europea per dare il via libera al documento che esprime i conti nazionali.



Poiché senza imprenditori la crescita non è possibile  e se ne sono accorti anche i nostri governanti -, ecco il cambio di passo e di atteggiamento dei due vicepremier che sono anche i garanti del contratto che dovrebbe regolare le sorti del Paese. Sinceramente convinti del ravvedimento o costretti dalle avverse circostanze a fare buon viso a cattivo gioco, il fatto rilevante è che Salvini e Di Maio hanno rotto un incantesimo. Ora spetta a tutti gli attori, ai protagonisti dell’economia e a quelli della politica, giocare una buona partita a vantaggio del Paese. Lasciando negli spogliatoi – se possibile – demagogie, ideologie, diffidenze, insofferenze, rivalità. E portando in campo, invece, le rispettive sensibilità perché un Paese complesso come il nostro ha bisogno che le ragioni dell’uno s’incontrino con le ragioni dell’altro.