Tutte le tessere del mosaico, una dopo l’altra, stanno incastrandosi al loro posto. E l’immagine comincia a stagliarsi di fronte al nostro sguardo nella sua disperante nitidezza: il mondo è già dentro una crisi ben peggiore e sistemica di quella del 2008. La cosa non vi stupirà, ve lo dico da qualche mese. Esattamente da quando il 90% dei commentatori, ivi compresi quelli molto quotati su queste pagine, ancora vi raccontavano la barzelletta dell’economia statunitense che tirava come un cavallo imbizzarrito e che doveva essere da esempio per tutti: vecchia, paludata e burocratica Europa del rigore tedesco in testa.
Il risultato di questa narrativa non sta nei crolli azionari di ottobre, né nei rendimenti obbligazionari ormai fuori controllo anche nell’investment grade e non più solo nella categoria junk, né nello sgonfiamento a tempo di record e stile soufflé delle invincibili Fang, Apple in testa. No, sta nell’immagine che ho scelto per la copertina dell’articolo. Non sono familiari o amici delle vittime dell’ennesima sparatoria in qualche luogo pubblico degli Usa, sono dipendenti della General Motors, gioiello e simbolo dell’industria statunitense. Piangono perché sette impianti, fra Stati Uniti e Canada, chiudono paradossalmente proprio in ossequio al più grande boom economico dal Dopoguerra e 14mila di loro, fra operai e colletti bianchi, saranno licenziati.
Ecco l’America del miracolo trumpiano, dell’orgoglio autarchico, del sovranismo monetario e commerciale: un’azienda fondata nel 1908 e per decenni il più grande costruttore di auto del Paese sta talmente bene in salute, finanziariamente parlando, che lascia a casa 14mila persone, dalla sera alla mattina. Il motivo? Crollo delle vendite. Questo è il mio articolo del 24 luglio scorso, dedicato alla figura di manager di Sergio Marchionne appena scomparso, ma, di fatto, un atto di accusa verso l’ottimismo miope e cialtrone di chi si beveva la narrativa del boom industriale Usa (dopo almeno una decina pubblicati nei mesi precedenti, nei quali facevo notare come a fronte di vendite in continuo calo e scorte in continuo aumento, la bolla prima o poi sarebbe comparsa in tutta la sua serietà, schiantando le prospettive del mercato a livello globale). Smontavo quella narrativa punto per punto, dicendo chiaro e tondo che proprio il fondamentale mercato dell’automobile mondiale sarebbe stata la prossima tessera del domino a cadere, principalmente per due ragioni: rallentamento della domanda interna cinese, principale mercato insieme all’India su cui si puntava in tempi di saturazione e abuso di incentivi e sussidi negli Usa, di fatto il doping di Stato, alla faccia del liberismo. Guarda caso, oggi Trump minaccia di togliere i sussidi a GM, se non dovesse recedere dalle sue intenzioni.
Balle. Teatrino. Il Re ormai è nudo. E non Trump in quanto tale, l’intero sistema che Trump rappresenta, paradossalmente, proprio con la sua postura falsamente popolare e populista. Si poteva evitare la crisi di GM e quei licenziamenti di massa? E, parallelamente, un altro gigante storico dell’industria Usa, General Electric, poteva evitare che i suoi bond, nonostante le agenzie di rating abbiamo letteralmente regalato loro l’investment grade ancora per tre gradini, entrassero in modalità di trading da alto rendimento (e per oltre 50 punti base di sforamento del range), squassando l’intero mercato obbligazionario corporate, visto che il gigante degli elettrodomestici al 30 settembre scorso poteva vantare un bel -48 miliardi di net worth tangibile a fronte di quasi 100 miliardi di debito? Certo che potevano. Sarebbe bastato evitare di bruciare miliardi in buybacks azionari, tutti finalizzati a un enorme schema Ponzi: abbassare il flottante, tenere alto artificialmente il valore del titolo e, soprattutto, staccare ricchi dividendi e bonus. E con Wall Street alle stelle grazie a queste pratiche manipolatorie, la narrativa della Trumpnomics come ricetta (a deficit) per il mondo, è servita. E i gonzi, ovviamente, tutti adoranti ad applaudire.
Sapete quanto ha speso GM, la stessa che ora lascia a casa 14mila persone, in riacquisto di azioni proprie sul mercato? Negli ultimi 4 anni, lo stesso periodo di tempo che ha visto generarsi il disastro cui oggi assistiamo, qualcosa come circa 14 miliardi di dollari. Il risultato? Il titolo ha perso comunque il 10%. E General Electric, il cui titolo azionario ha già perso il 58% solo da inizio anno? Fra il 2015 e il 2017 ha speso circa 40 miliardi di dollari in buybacks, divenendo uno dei più grandi operatori di questa tecnica finanziaria a Wall Street: il riacquisto avvenne a un prezzo che variava nel range fra 32 e 20 dollari per azione. Oggi il titolo vale circa 8,5 dollari per azione. Una cifra compresa fra 23 e 29 miliardi di dollari degli azionisti è finita nel wc e qualcuno ha anche tirato lo sciacquone.
E non basta, perché per dar vita alla “ristrutturazione” appena annunciata, GM pagherà qualcosa come 3,8 miliardi di dollari di compensazioni e invii all’uscita. Preferiscono pagare subito 4 miliardi cash che provare a stare sul mercato: a vostro modo di vedere, non esiste il rischio che i conti siano ancora peggiori di quanto ci viene detto? E chi li paga, principalmente, quei conti, i manager forse? No, 14mila lavoratori con famiglie a carico. Di cui 6mila colletti bianchi. Scusate ma dov’era Donald Trump, lo stesso che oggi pateticamente fa l’indignato e minaccia di togliere gli 11 miliardi di sussidi garantiti a GM dal grande salvataggio pubblico del comparto auto posto in essere dall’amministrazione Obama? Per lo meno, per tutto il 2017 è stato alla Casa Bianca, formalmente alla guida del Paese. E non si è accorto che GM stava buttando nel cesso miliardi di dollari in buybacks azionari, invece che ammodernare gli impianti e prepararsi alla sfida globale dell’auto elettrica, ad esempio? Forse no.
Forse era troppo occupato a postare tweets ad ogni rottura di nuovo massimo da parte degli indici di Wall Street, attribuendosene ovviamente il merito. E tutti i gonzi a crederci, ovviamente. Peccato che quei nuovi record siano stati frutto, appunto, al 90% dello schema Ponzi dei buybacks strutturali e sistemici, di fatto un’alternativa agli acquisti garantiti della Fed, come ci mostra plasticamente questo grafico: come la mettiamo, cari sovranisti distratti e Majakovskji del democraticissimo ricorso al deficit strutturale? È questo il modello che qualcuno, ancora fino a ieri, contrapponeva al mercantilismo tedesco che domina l’Europa dei conti in ordine spacciati per rigore miope o dell’eccessiva regolamentazione spacciata per lacciuoli castranti, frutto della fobia inflazionistica di Weimar o della volontà di preservare surplus commerciale? Complimenti, tenetevelo pure questo modello, se vi piace tanto.
Peccato che saranno gli eccessi finanziari connessi ontologicamente a questo modello delinquenziale che ci stanno portando, a passi da gigante e ben più rapidi di quanto anch’io nel mio infinito pessimismo pensassi, dentro una nuova crisi globale. Necessaria agli Usa per resettare tutto di nuovo, purgare il sistema e ricominciare con il loro enorme schema Ponzi, corrispettivo ammantato di falso liberismo della piramide socio-economico cinese. Purtroppo, avevo ragione. Prendiamo proprio la questione dirimente al riguardo, ovvero la disputa fra Casa Bianca e Fed su politica di innalzamento dei tassi e contemporaneo sgonfiamento del bilancio. Un disastro, roba che nemmeno un genio del male come Greenspan sarebbe riuscito a concepire. Mercoledì Jerome Powell ha dato il primo segno di cedimento nel suo discorso, mettendo le ali a Wall Street che ha chiuso in forte rialzo: di fatto, il nostro eroe ha cambiato drasticamente la sua narrativa rispetto al percorso di normalizzazione del costo del denaro, abbassando e di molto la cosiddetta “banda neutrale” dello stesso, ovvero quel range percentuale di costo del denaro visto appunto come ancora neutrale per il mercato, dopo anni e anni di eccezionalità emergenziale di tassi a zero o negativi.
Bene, quel range non è più “ancora molto lontano” come si diceva solo il mese scorso, oggi pare praticamente raggiunto: Powell ha abbassato nientemeno che dell’1% quella banda neutrale, di fatto il corrispettivo di quattro aumenti da un quarto di punto. Si è rimangiato tutto? Merito di Trump che da almeno agosto condanna quella politica in tutte le forme, tweets in testa?
(1- continua)