Che qualcosa stesse per andare pericolosamente fuori giri lo si era capito fra il 14 e il 15 dicembre scorsi. Ovviamente, nessun grande giornale o tg mainstream se ne occupò. E, per una volta, senza particolare colpa. Le notizie, almeno la prima, in sé non erano certo da prima pagina. Il 14, infatti, Donald Trump e Recep Erdogan si intrattennero per una lunga telefonata. Si pensò al caso Khashoggi, alla gestione di quel fattaccio al consolato saudita di Istanbul che tante difficoltà stava creando a Ryad, già alle prese con gli equilibri interni in modalità tintinnar di sciabole e l’Opec che perdeva colpi, esattamente con il barile di greggio che perdeva valore. Il giorno dopo, però, un indiretto indizio doveva far capire che il contenuto di quella chiamata era ben più importante: il Dipartimento di Stato, con fretta poco rituale, approvava infatti la vendita di missili Patriots alla Turchia per un controvalore di 3,5 miliardi di dollari. La stessa Turchia che aveva appena chiuso l’accordo con Mosca per la fornitura di batterie missilistiche S-400, facendo non poco infuriare Washington e preoccupare la Nato.



Qualcosa stava covando sotto la cenere della falsa pace in Medio Oriente. «Le due cose non si escludono, né precludono», facevano sapere fonti governative turche attraverso l’Afp riguardo il loro strano ruolo di acquirente di armamenti da due potenze non solo formalmente nemiche, viste le ultime scintille sul Baltico e attorno alla questione della Crimea-Ucraina. Silenzio per qualche giorno, poi il 19 dicembre la bomba: Donald Trump annuncia il ritiro delle truppe statunitensi dalla Siria. Totale. E immediato. Due giorni dopo, la bomba ulteriore. A seguito dell’annuncio del dimezzamento anche del contingente Usa dislocato in Afghanistan (14mila uomini attualmente sul terreno), il capo del Pentagono, generale Jim Mattis, annunciava le sue dimissioni con una lettera molto polemica, nella quale invitava il Presidente a scegliersi un ministro della Difesa che fosse in linea con le sue scelte di politica estera. Detto fatto, non solo la Casa Bianca ha immediatamente promosso a quel ruolo il vice di Mattis, l’ex amministratore delegato della Boeing, Patrick Shanahan, ma lo ha fatto con effetto pressoché immediato: l’ex marine doveva restare al suo posto fino al 28 febbraio, mentre dal 1 gennaio sarà fuori.



Una fretta e una determinazione sospetta, soprattutto su una materia così strategica e delicata. E, soprattutto, in totale controtendenza con tutte le raccomandazioni al riguardo che sono arrivate alla Casa Bianca da ambienti della Difesa, di ieri come di oggi, non ultimo l’ex comandante in capo delle operazioni Natp, il mitico Wesley Clark, intervistato dalla Cnn.

Ma gli Usa non sono l’unico Stato “sensibile” in cui il capo del governo ha deciso di compiere un azzardo. In quasi contemporanea con la retromarcia isolazionista di Donald Trump sulle missioni estere più delicate, il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, annunciava elezioni anticipate nel suo Paese per il 9 aprile prossimo. Era il 24 dicembre e la notizia, diffusa da un portavoce del Likud via Twitter, rimbalzava nelle redazioni lasciando tutti storditi: ma come, proprio ora che il consenso del primo ministro e del suo partito sono in acque agitate, Bibi tenta l’azzardo più grande, quello che potrebbe costargli del tutto la carriera, già di per sé avanti nel tempo e compromessa soprattutto dagli scandali personali e di famiglia? Mercoledì scorso, poi, giorno di Santo Stefano, l’altro siluro: in perfetta stile da apertura molto anticipata della campagna elettorale, il governo di Tel Aviv annunciava l’approvazione dei piani per la costruzione di circa 2.200 alloggi per i coloni in Cisgiordania, argomento che da sempre gioca un ruolo centrale nelle politiche della destra israeliana. Il tutto, a poche ore da uno scambio di razzi e accuse incrociate di attacco deliberato proprio con la Siria, ancora tutto da chiarire nelle dinamiche reali. Ovvero, nel capire chi abbia attaccato chi per prima e chi abbia reagito all’aggressione.



Qualcuno, però, già da oggi pare avere le idee chiare. Molto chiare. E, soprattutto, essendo palesemente parte in causa. Mentre in Israele veniva infatti annunciato il regalo elettorale di Netanyahu ai coloni, in Russia il quotidiano Nezavisimaya Gazeta non aveva dubbi: Israele si sta preparando per una guerra sul larga scala in Siria, di fatto resa possibile – per Tel Aviv, addirittura indispensabile e vitale – proprio dal ritiro delle truppe statunitensi. A confermarlo, parlando con la stampa russa, l’ex ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, a detta del quale «il ritiro degli Usa ha grandemente aumentato la possibilità di una conflitto su larga scala nell’area del Nord, in Libano o in Siria. L’abbandono statunitense farà crescere il morale del presidente siriano Assad e dei suoi alleati, l’Iran e gli Hezbollah libanesi».

A detta dell’esperto militare russo, Yuri Liamin, citato dal quotidiano, «l’Iran non può interpretare questa decisione come un assegno in bianco. Non dobbiamo dimenticare che la Turchia sta ora minacciando apertamente di lanciare un’operazione militare contro i curdi di Siria e questa potrebbe portare a un controllo turco di fatto su una porzione significativa del territorio settentrionale siriano. Uno sviluppo di questo genere, difficilmente potrebbe far piacere alle autorità di Damasco, così come ai suoi alleati iraniani». E rieccoci all’allarme della sera di Natale, con lo scambio di accuse fra Israele e Siria e i sistemi anti-aerei di Damasco, gli S-300 russi consegnati a tempo di record (e, quasi certamente, avendo già fiutato nell’aria qualcosa) in funzione per intercettare un missile: quel razzo, a detta di alcuni, era diretto a una caserma in cui erano presenti importanti membri di Hezbollah, in procinto di ritornare in patria per un avvicendamento.

E qui sta il nodo di quanto abbiamo di fronte, confermato in maniera paurosamente palese dal capo della Difesa israeliana, l’uscente Gadi Eisenkot. Dietro alle manovre finora sotterranee e clandestine, ci sarebbe un piano iraniano ben preciso. Piano che, si lascia intuire, Israele non permetterà mai che divenga realtà. Dichiara Eisenkot: «L’Iran darà vita a un forza composta da 100mila miliziani di truppe a terra, una volta che la guerra sarà finita. E questo avverrà il giorno dopo la cessazione dei combattimenti». Un allarme chiaro, un salto di qualità della presenza iraniana in Siria, dopo due anni di schermaglie che hanno visto gli israeliani lanciare circa 200 attacchi in territorio siriano. Per Eisenkot, intervistato da Times of Israel, «la Guardia Rivoluzionaria islamica (i Pasdaran, ndr) ha benedetto la presenza militare permanente dell’Iran in Siria, dove sono già presenti 20mila fra membri di Hezbollah e militanti sciiti da Iraq, Afghanistan e Pakistan, oltre che centinaia di consulenti militari dall’Iran. Teheran intende dar vita a un forza combinata che contempli aviazione, truppe di terra, navali e intelligence, questo per creare una vera e propria linea di posizionamento militare lungo il confine del Golan». E, parlando degli sforzi messi in atto finora dalle forze armate israeliane per limitare l’influenza iraniana nel contesto siriano, Eisenkot si è limitato a dire che «si tratta soltanto della punta di un iceberg, la parte più grande e sostanziale è infatti nascosta all’occhio dell’opinione pubblica israeliana. Abbiamo dedicato risorse, intelligence e operazioni sotto copertura molto significative a questa finalità: tutte attività di cui l’israeliano medio, anche se abitante nel Golan, è totalmente all’oscuro. Da anni».

Insomma, uno scenario che appare quello preparatorio a un conflitto in grande stile, a una guerra aperta. E finale, pur nell’ormai consueto scenario del conflitto proxy. Come in Yemen, d’altronde. Il 20 dicembre scorso (dopo la telefonata fra Donald Trump e Recep Erdogan e il giorno successivo all’annuncio del ritiro USA dalla Siria) parlando al quinto summit trilaterale fra Israele, Cipro e Grecia nella città meridionale di Beersheba, lo stesso Benjamin Netanyahu rivelò di essere stato avvertito in anticipo della scelta statunitense, il lunedì (tre giorni prima), da una chiamata dalla Casa Bianca, seguita il martedì da quella di Mike Pompeo in persona dal Dipartimento di Stato. E queste furono le sue parole al riguardo: «Continueremo a operare in Siria per prevenire gli sforzi iraniani di radicarsi nell’area in chiave anti-israeliana. Non stiamo riducendo i nostri sforzi, anzi li incrementeremo. E so che noi stiamo operando in tal senso con il totale supporto degli Stati Uniti».

Il resto di questa storia, talmente pericolosa da aver spinto il Santo Padre a dedicare parole molto chiare e dolenti prima delle benedizione Urbi et orbi, è cronaca. Donald Trump che compare fra le truppe di stanza in Iraq il giorno di Santo Stefano, garantendo che – a differenza di Siria e Afghanistan – nessun militare americani si muoverà da lì. Anzi, «potremmo usare questa come base se volessimo fare qualcosa in Siria», ha detto il Presidente, pressoché ignorato dalla grande stampa. E se il bersaglio, come appare palese dalle parole dei leader, politici e militari, israeliani, è l’Iran, il fatto di scegliere lo storico nemico ai confini, l’Iraq, come potenziale avamposto, ha un senso. Fin troppo chiaro, se pensiamo non solo a operazioni aeree, ma che – eventualmente – di terra. E se, sfruttando la tensione creata attorno al caso, Israele tentasse invece il blitz in Libano contro Hezbollah? Dove, tra l’altro, sono presenti nostri soldati, inquadrati nella missione Unifil?

E poi, davvero la Russia è parte in causa del tutto, in questo gioco pericolosissimo contro l’eccessiva espansione mediorientale di Teheran? Che dire dei toni millenaristici con cui, durante la conferenza stampa pre-natalizia, Vladimir Putin ha ammonito il mondo intero riguardo la sottovalutazione di uno scenario da guerra nucleare? E che dire di quanto accaduto il 26 dicembre, in quasi perfetta contemporanea con il blitz iracheno di Trump? Il Presidente ha infatti presenziato personalmente al test, coronato da successo, della nuova arma nucleare a planata ipersonica Vangard dalla sala di controllo del ministero della Difesa, roba da Guerra Fredda in piena regola, scenario mediatico da Politburo vecchio stile.

Il Vangard, lanciato con un missile vettore intercontinentale, è in grado di trasportare una testata atomica e di planare come un aliante a grande altitudine, slittando sugli strati più densi dell’atmosfera a Mach 20 (20 volte la velocità del suono) per poi colpire obiettivi lontani senza essere intercettata dai sistemi antimissile Nato. Il lancio è avvenuto dalla base di Dombarovsk, nella regione degli Urali. Vangard ha attraversato ad alta quota tutta la Siberia per colpire il poligono in Kamchatka, distante 6mila chilometri. «Vangard è invulnerabile a qualsiasi mezzo di difesa antimissile esistente o futuribile, si dirige sul bersaglio come un meteorite, come una palla di fuoco», ha assicurato un entusiasta Putin in versione Dottor Stranamore. Siamo alla vigilia di una guerra in grande stile, quella che servirà a un – seppur traumatico – riequilibrio parziale, dopo le troppe convergenze parallele andate sommandosi negli anni della guerra siriana e dell’espansionismo, sia Nato che russo che cinese, vedi l’Artico e l’Africa come nuovi orizzonti di conquista del warfare strutturale globale?

Temo di sì, tanto più che con il mondo che ormai da per certo l’arrivo anticipato di una nuova recessione, un po’ di moltiplicatore bellico del Pil, per alcuni noti Paesi, casca come una manna dal cielo. Casualmente, l’ex numero uno della Boeing fra tre giorni sarà il nuovo capo del Pentagono. Casualmente, Israele compra storicamente armamenti made in Usa. Il viso di papa Francesco, nell’invocare una soluzione politica per la Siria, non era solo preoccupato. Era terrorizzato. E temo che questa volta sia tardi per sperare in ripensamenti. Ad aprile Netanyahu si gioca il tutto per tutto e l’eliminazione del pericolo iraniano dal Golan potrebbe essere la testa d’alce da attaccare al muro della propria, insperata rielezione. Gli Usa devono però creare crescita economica, rapida e sostanziale e le armi lo fanno storicamente, tanto più che Tel Aviv sta flirtando troppo con Pechino – vedi la gestione per 25 anni del porto strategico e casa della Sesta Flotta, Haifa – e questa per Washington potrebbe essere una sorta di “prova d’amore”, anche in vista del voto 2020 e del supporto della lobby ebraica. Come reagiranno, però, i grandi partner commerciali e politici iraniani, Cina e Russia?