Quando arrivi alla presidenza degli Stati Uniti promettendo la rivincita di Main Street contro Wall Street, ma la tua amministrazione, tramite le sue azioni, garantisce a quest’ultima il miglior anno di sempre nella storia a livello di profitti, qualcosa non va. E non più soltanto nella narrazione, anche nella tenuta stessa di quell’inganno perenne. Già, dati alla mano della stagione delle trimestrali in atto, come ci mostra il grafico, il 2018 per le principali sei banche d’affari americane è stato da record: oltre 113 miliardi di dollari a livello di profitti. Il merito? Taglio delle tasse voluto con forza titanica dalla Casa Bianca (e finanziato in deficit, ça va sans dire), ai pagamenti degli interessi sulle riserve da parte della Fed, all’aumento dei tassi di interesse, oltre a un balzo all’insù senza precedenti dell’attività di intermediazione/sottoscrizione e al vero e proprio boom del retail banking, cioè lo spiumaggio sistematico del parco buoi.



E come si concilia la difesa degli onesti lavoratori americani, gente che si spezza la schiena per meno di 30mila dollari l’anno, con l’aver portato Wall Street e i suoi bonus milionari ai massimi record? Semplice, si annulla la presenza della delegazione americana dal Forum di Davos che comincia la settimana prossima nella rinomata località sciistica svizzera. Si ricorre, insomma, alla propaganda e alla simbologia spicciola. Donald Trump non è un genio, ma è ben consigliato, occorre ammetterlo. La questione “conti di Wall Street” l’ha preparata bene e gestita meglio. E i Democratici, da questo punto di vista, gli hanno garantito una sponda perfetta. Nancy Pelosi, Speaker della Camera e terza carica dello Stato, infatti, ha ufficialmente suggerito al Presidente di rinviare il suo discorso sullo Stato dell’Unione, a causa dello shutdown federale che non garantirebbe le necessarie misure organizzative e di sicurezza. Un affronto, oltre che una messa in discussione di uno dei palcoscenici più prestigiosi per comunicare con il mondo, oltre che con gli Usa.



Detto fatto, Donald Trump ha prima cancellato i viaggi ufficiali della stessa Pelosi a Bruxelles, in Egitto e in Afghanistan, proprio a causa dello shutdown – «In questo momento è molto meglio e più importante restare qui a negoziare» – e poi ha annunciato la cancellazione in toto dela presenza della delegazione Usa a Davos, la quale doveva essere guidata da due pezzi da novanta come il segretario al Tesoro, Steven Mnuchin e dal segretario di Stato, Mike Pompeo. Tutti a casa. E perché? Perché sarebbe oltraggioso andare in Svizzera a spese dei contribuenti, quando 800mila onesti lavoratori americani stanno patendo le conseguenze del blocco governativo, in primis il ritardo nell’ottenimento degli stipendi settimanali ormai dal 22 dicembre.



Già, perché quello che doveva essere soltanto un gioco di sponda fra Democratici e Repubblicani si è tramutato nel frattempo nell’esercizio provvisorio più lungo della storia: e, stando almeno all’abile strategia di minaccia della Casa Bianca, pare destinato a prolungare questa sua striscia record, se l’opposizione non cederà sulla questione del muro con il Messico. Il quale, ovviamente, nella narrativa del Presidente è tornato un’emergenza assoluta, una priorità. Un po’ come la cattura di Cesare Battisti e ora la caccia a tutte le altre “primule rosse” degli anni di piombo: almeno, si parla d’altro. E non del fatto che, Decretone approvato, entro la primavera servirà una bella manovra correttiva. E allora, ti saluto reddito di cittadinanza, alla faccia delle clausole anti-divano.

Ma vale per tutti, signori miei. Perché pensate che Theresa May abbia ricevuto soltanto un avviso da Westminster martedì sera, ovvero una fiducia più risicata delle attese al suo Governo, ma nessuno abbia avuto il coraggio di disarcionarla? Perché serve lei come parafulmine e serve soprattutto la pantomima del Brexit ancora vivo come elemento destabilizzante da gettare in pasto alle opinioni pubbliche, ora che i guai a livello economico si faranno sentire davvero. Il Brexit è un ostaggio che serve vivo per ottenere il riscatto, il dividendo politico e anche se clinicamente appare morto, la presenza al timone di Theresa May rappresenta la classifica fotografia con il quotidiano di giornata in mano che dovrebbe fornire la garanzia ai parenti. Ora che arriveranno i licenziamenti, le crisi bancarie, il congelamento del nuovo credito. E, soprattutto, la drastica frenata di Usa e Cina.

Casualmente, anche Theresa May non andrà a Davos: sarebbe irresponsabile in questo momento. Resterà a Londra a trattare con le opposizioni per trovare un piano B da presentare all’Ue e, soprattutto, da votare il 29 gennaio a Westminster. Si va da un D-day all’altro, chissà quando arriverà quello vero. E definitivo. E anche Emmanuel Macron non andrà a Davos, troppo impegnato nel “dibattito nazionale” che ha lanciato per tentare di blandire un po’ l’opinione pubblica, addomesticare i sondaggi e, soprattutto, spaccare del tutto in due il movimento dei gilet gialli.

Davos, lo specchietto per le allodole perfetto. D’altronde, è il punto d’incontro internazionale delle élites, del gotha economico-finanziario, dell’establishment che si riunisce per discutere dei destini del mondo, ignorando le grida di dolore che arrivano dalle strade: meglio non esserci, se ci si tiene alla salute in questo periodo. E quasi a voler dare un’indiretta risposta al quesito che si poneva Nanni Moretti in Ecce bombo, ovvero se lo si notasse di più andando o non andando a una festa, ecco che il non essere presente al World Economic Forum in programma dal 22 al 25 gennaio è non solo elemento qualificante in positivo, ma, addirittura, indice riconosciuto e riconoscibile di postura politica democratica e progressista. Oltre che scusa perfetta per finire sui giornali non abbinato a materie sgradevoli. Ad esempio, il fallimento palese del Brexit, il livello di fiducia dei tuoi concittadini pari a quelli di un truffatore di anziani o, peggio ancora, Wall Street che festeggia profitti (e bonus e dividendi) record alla vigilia di una nuova, devastante recessione globale.

E occorre fare in fretta e scatenare più fumo possibile, perché questo grafico parla chiaro: la fiducia degli americani nell’economia è letteralmente crollata, il peggior risultato da novembre 2016 (elezione di Trump alla Casa Bianca). Ovvero, di fatto sono state azzerate tutte le speranze legate alla presidenza del tycoon che voleva rifare grande l’America, la Trumpnomics è ufficialmente morta. Una prece.

E attenzione a due particolari. Primo, se l’indice generale di fiducia è calato a 58.1, minimo da quattro mesi, quello schiantatosi al suolo è relativo al grado di aspettativa economica dei consumatori: in un Paese che vede il Pil dipendente al 70% dai consumi. Secondo, quel tracollo è accaduto soltanto tre mesi dopo che lo stesso indice aveva toccato il massimo da 16 anni. Un’inversione netta della percezione, della narrativa: e cosa c’è di meglio che non caricare lo shutdown federale – e, quindi, l’intransigenza dei Democratici verso una priorità di sicurezza collettiva come il muro con il Messico – di responsabilità per quella che, in realtà, è niente altro che la presa di coscienza – ancora inconscia e manipolabile – dell’elettorato medio relativamente il tradimento palese delle promesse sovraniste verso Main Street? Et voilà, lo shutdown è ovunque sui media. Un martellamento, fra poco ci diranno che è colpa dello shutdown anche il surriscaldamento globale.

Ma attenzione, perché negli Usa è sacro il principio bipartisan del right or wrong, my country, quindi quando la faccenda si fa seria come una crisi economico-finanziaria alle porte, ecco che la cortina fumogena si alza da ogni dove, a garantire libertà di fuga dalla realtà. Guarda caso, vediamo ritornare in grande stile il Russiagate, stavolta con le pressioni del Presidente verso il suo ex avvocato, Michael Cohen, affinché questi mentisse al Congresso rispetto alle trattative per costruire una Trump Tower a Mosca. Tanto che ora il legale non vorrebbe più testimoniare: «Ho paura per la mia famiglia», Sembra un film di Alan J. Pakula, dramma hollywoodiano in piena regola.

E poi il Brexit, è tutta colpa del Brexit se l’economia europea si è piantata, perché instilla troppa instabilità politica. E poi i gilet gialli, termometro di un malessere sociale che non è contro le élites, ma contro un sistema che, attraverso il sovranismo, ha soltanto subito un morphing, ma è sempre lo stesso. Anzi, peggiore. Come ci dimostra plasticamente il dato sui profitti di Wall Street.

Meditate gente, meditate con attenzione. Perché dubito che l’Italia potrà restare fuori ancora per molto dal frullatore destabilizzante che è entrato in azione a livello globale.