Non c’è voluto molto prima che la mia previsione di inizio anno trovasse fondamento concreto nella cronaca: gli Usa, utilizzando la cortina fumogena di crisi commerciale con la Cina e shutdown federale, mostrano in realtà di essere in grande forma destabilizzatrice. Roba da post-11 settembre, per capirci. Non so come andrà a finire in Venezuela, ma di una cosa sono certo: era tutto preparato, in primis il riconoscimento del “secondo presidente”, avvenuto a tempo di record (ovviamente con primo firmatario simbolico Washington) e senza un fiato dagli organismi internazionali, Onu in testa. Questo ancorché la mossa coordinata dal nuovo motore immobile dell’amministrazione Usa, il potentissimo consigliere per la Sicurezza, John Bolton, abbia reso ancora più ampio e pericoloso il vulnus creatosi fra Casa Bianca e Pentagono, già sostanziato a fine anno dal polemico addio del generale Mattis.



Di fatto, il Pentagono è in guerra contro John Bolton e i suoi deliri neo-neo-con. Situazione peggiore, scenario maggiormente da Dottor Stranamore, non potrebbe esserci. Statene certi. Ma, ovviamente, qui si parla solo degli 800mila dipendenti federali che fanno la fila per prendere i pasti gratis (quasi i loro stipendi arretrati non venissero poi saldati in pieno e non ci fossero le fabbriche di mezzo mondo che pagano gli operai in ritardo e non certo con i livelli salariali di un dipendente del governo Usa) o della polemica tutta a uso interno ed elettorale – in vista del voto presidenziale del 2020 – della Speaker del Congresso, quella Nancy Pelosi che ha bloccato il discorso sullo Stato dell’Unione di Trump fino a che non si trovi un accordo che sblocchi l’esercizio provvisorio. I soliti Usa, insomma, alla faccia dell’isolazionismo e del sovranismo: sono come il Senato romano, dove ci si accapigliava come pazzi, ma, alla fine, si trovava sempre il messaggio univoco da far arrivare alle colonie. E come nelle colonie, di quinte colonne e imperatori per procura di Washington, in Europa ne abbiamo tempi. Troppi, decisamente.



In tal senso, Dio benedica l’accordo di Aquisgrana e tutto ciò che esso comporterà: meglio dover litigare con Berlino e Parigi a vita che essere il tappetino d’ingresso dei desiderata d’Oltreoceano, come ci mostra la stranamente rinnovata vexata quaestio delle trivelle nello Ionio, tanto care al Dipartimento di Stato e dell’Energia Usa. Signori, vi rendete conto che dopo il tentativo di golpe militare di un drappello di ufficiali venezuelani, un signor nessuno come Juan Guaido arriva a sfidare l’ordine internazionale, autoproclamandosi presidente e nel tempo di uno schiocco di dita Donald Trump lo riconosce? Vi pare normale? Al netto della validità delle elezioni venezuelane che hanno riportato al potere Nicolas Maduro, vi pare che ripagarlo con la stessa moneta sia prodromo di un destino di democrazia per quel Paese martoriato? Certo, nessuno vuole morire di fame, ma vi assicuro che la Cuba di Batista piaceva molto agli americani, ma poco ai cubani: sta accadendo la stessa cosa, Washington vuole il Venezuela. E se lo prenderà, in un modo o nell’altro. Speriamo almeno si eviti il bagno di sangue di gente inerme e innocente.



Resta un fatto: la nuova pax americana è calata “democraticamente” e tramite il voto prima sulla Colombia, poi sul Brasile e ora tenta il colpo in Venezuela. Dopo, toccherà all’ultimo ribelle, il Nicaragua. E se ancora credete alla retorica della lotta contro il comunismo, allora lasciate pure perdere e occupatevi del Franco Cfa e di altre amenità simili. Qui si sta mettendo in discussione il nuovo ordine mondiale: avesse fatto George W. Bush la metà di quanto già fatto dall’isolazionista Donald Trump, lo avrebbero crocifisso al Palazzo di Vetro dell’Onu. Qui, stranamente, c’è sempre una cortina fumogena che sposta l’attenzione verso qualcosa di più importante. O mediatico e social. Chissà come mai.

E attenzione, perché nel silenzio generale che contorna queste materie ostiche e queste dinamiche sotterranee di potere, la Siria sta per tramutarsi nel teatro del grande scontro con la Russia. E, temo, nel banco di prova finale per decidere chi fra Bolton e Pentagono avrà la meglio nella determinazione dell’agenda di politica estera. Donald Trump ha infatti annunciato il ritiro totale dei 2mila uomini in Siria, dichiarando che il pericolo dell’Isis è stato sconfitto e quindi è inutile tenere dei ragazzi dall’altra parte del mondo. Tanto più, quando potrebbero essere utili – magari – come forza di interposizione o “di pace” in America Latina. Tutti i vertici militari sono contrari, ben conoscendo le dinamiche in atto in quel Paese e gli interessi geostratetici che sottendono.

Caso strano, il 16 gennaio nella città siriana a influenza curda di Manbij, uno strano attentato contro un ristorante uccide 4 soldati Usa e ne ferisce tre. Più di qualche analista, toltosi i guanti della diplomazia di fronte a un timing tanto sfacciato, parla del cosiddetto convenient killing, ovvero un attacco che fornisce una giustificazione perfetta alle ragioni di chi trova prematuro e controproducente il ritiro delle truppe statunitensi dalla Siria. E attenzione, il mio non è complottismo. Perché da domenica i media Usa stanno riferendo di una telefonata intercorsa fra Donald Trump e il presidente turco, Recep Erdogan, relativamente a quell’attacco nella semi-sconosciuta ma strategica cittadina del Nord siriano e parlano di un Trump che avrebbe convenuto con il suo omologo turco riguardo il carattere “provocatorio e per influenzare la mia decisione riguardo il ritiro delle truppe dal Paese” dell’attentato.

Di più, stando a un funzionario di Ankara, Trump avrebbe riferito a Erdogan che “non mi piegherò su questa faccenda. Sono deciso, ce ne andremo”. Il Pentagono alzerà di nuovo il tiro? Nel frattempo, la notizia finisce nelle pagine di politica estera dei grandi quotidiani, mentre i seguitissimi telegiornali mostrano all’opinione pubblica le folle affamate di Caracas che vogliono cacciare Maduro per poter vivere il loro sogno venezuelano.

C’è però un problema. Come riferito dal Financial Times, a perdere la pazienza in Siria sarebbe la Russia, irritata a tal punto dal ritrovato feeling fra Turchia e Casa Bianca da aver nemmeno troppo velatamente minacciato di essere pronta a porre fine alla tregua sancita quattro mesi fa e operare un’escalation in grande stile, addirittura riattivando i piani di attacco congiunto con le milizie fedeli ad Assad e quelle filo-iraniane di Hezbollah per liberare del tutto la ex roccaforte di Idlib. Insomma, la grande offensiva che si era arenata proprio per il ritorno al buon senso di tutte le parti in causa, potrebbe tornare sul tavolo come opzione. Quantomeno, come minaccia, in caso – come fatto intendere dallo stesso Vladimir Putin – il ritiro americano dalla Siria dovesse tramutarsi nell’ennesimo annuncio senza epilogo reale. In tal senso, la Russia da giorni sta parlando di rapido deterioramento della situazione nell’area, questo nonostante l’impegno della Turchia a mantenere i militanti islamisti, Al-Nusra in testa, almeno a 15-20 chilometri dalla zona cuscinetto a difesa del cessate il fuoco, come mostra la mappa.

Dal canto suo, Ankara la butta sull’umorismo – non si sa quanto inconsapevole – accusando per il proliferare di islamisti nell’area addirittura lo stesso regime di Assad, tanto che la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, si è rifiutata di commentare l’affermazione, ricordando però come l’intera area di Idlib – sottoposta a regime di tregua concordata – sia ora sotto il controllo di miliziani di Al-Nusra e Hayat Tahrir al-Sham, dopo l’espulsione da parte di questi ultimi di tutti le unità dell’opposizione moderata al governo centrale. L’ennesimo doppio gioco di Washington, Ankara e anche di quei campioni mondiali nella specialità del voltafaccia in corsa dei miliziani curdi, casualmente sempre voltati dall’altra parte?

Una cosa è certa, se Mosca farà capire che un’offensiva in grande stile potrebbe tornare in cima all’agenda operativa, la pressione su Donald Trump affinché rallenti o blocchi del tutto il ritiro delle truppe dalla Siria rischia di diventare insopportabile per un Presidente già indebolito dalla lotta con i Democratici, dalle divisioni interne alla sua amministrazione e da un caso Russiagate che salta fuori ad orologeria, continuamente. Se Mosca alzasse la voce in Siria, decidere di bloccare il ritiro delle truppe potrebbe anzi rivelarsi l’occasione per dimostrare plasticamene di non esserne complice o socio occulto, è il ragionamento che fanno al Pentagono. Non a caso, l’agenda sudamericana voluta da John Bolton ha subìto un’accelerazione impressionante.

C’è poi un’altra variabile a dirci quanto sia pericoloso quanto sta accadendo. Anzi, due. La prima è lo scontro Israele-Iran sullo sfondo del conflitto proxy. La seconda sta in questo video, il quale ci mostra come già nel dicembre del 2017 il fondatore dell’impero dei contractors privati Usa, quell’Eric Prince padre padrone ed ex amministratore delegato di Blackwater, avesse dovuto difendersi dall’accusa di essere il puparo che di uno strisciante e latente progetto di privatizzazione del business della guerra in seno all’amministrazione Trump. Bene, con timing anche in questo caso perfetto rispetto allo strano attentato al ristorante di Manbij (due giorni prima), intervistato da Fox News, Prince ha dichiarato come i suoi uomini potrebbero ottimamente rimpiazzare proprio le truppe statunitensi ritirate dalla Siria, in modo da non lasciare scoperto un avamposto così strategico. In questo modo, «il vuoto potrebbe essere colmato e Trump potrebbe mantenere la sua promessa di porre fine alle guerre infinite».

Il compromesso perfetto, non vi pare? E lui, casualmente, potrebbe far fare un mare di soldi al suo successore (il quale, ovviamente, saprà come ringraziarlo), ma, soprattutto, sancire l’ennesimo precedente sul campo e così aprire un varco enorme al business del futuro, la privatizzazione del warfare non solo rispetto alle missioni estere, ma alla guerra al terrorismo in senso più ampio. Quindi, anche a livello interno degli Stati Uniti. D’altronde, chi fu mandato a New Orleans a sparare sui cittadini di colore poveri durante l’emergenza per l’uragano Katrina nell’agosto del 2005, se non i contractors senza scrupoli di Prince? E in Afghanistan, chi tentò il blitz di un invio da ben 6mila uomini, tanto che il colpaccio gli valse l’appellativo di “vicerè”? E in Iraq, come ci mostra il grafico?

Ora Prince, dopo aver pesantemente monetizzato la vendita di Blackwater, ha esportato il suo modello di security privata nella nuova frontiere mondiale, in Cina, dove ha creato il Frontier Services Group (Fsg), operante guarda caso a difesa degli interessi strategici del Dragone in Asia e Africa: insomma, sparare a poveri ad altre latitudini. Ecco cosa sta accadendo nel mondo, signori. Ma mi raccomando, la priorità è smantellare la cospirazione del secolo, l’accordo di Aquisgrana fra Germania e Francia. Papa Francesco parlava di “terza guerra mondiale a pezzi”: questa cosa vi sembra?